CAVALIERI DEL DESERTO
“Noi ci siamo nutriti della magia delle sabbie,
altri forse vi scaveranno i loro pozzi di petrolio
e con le loro merci si arricchiranno;
ma saranno arrivati in ritardo.
Perché i palmeti proibiti o la polvere di conchiglie
ci hanno donato la parte più preziosa di se stessi:
non avevano da offrire che un’ora di fervore,
e siamo noi ad averla vissuta”.
(Antoine de Saint-Exupéry: Terre des Hommes)
Indice
Scatole cinesi: quasi una prefazione
Parte I - Introduzione a una “storia segreta”
- Newbuildings Place, Sussex, Inghilterra, 1907
-Sheikh Obeyd, Egitto, 1907 - Il giardino egiziano
-Newbuildings Place, 1907 - Nella tempesta
-Sheikh Obeyd, 1907 - Inquietudine
-Newbuildings Place, 1907 - Intrighi all’ombra di Westminster
-Sheikh Obeyd, 1907 - Ricordando l’incendio di Alessandria
Parte II - L’eredità di Byron
-Newstwad Abbey, Nottinghamshire, Inghilterra
-La “principessa dei parallelogrammi”
-Incantatrice di numeri
-Semplicemente Anne King
Parte III - Un appassionato pellegrino byroniano
-Villa Caproni, lago Maggiore, Italia
-Newbuildings Place - Un matrimonio vittoriano
Parte IV - Cavalieri del deserto
-Le tribù beduine dell’Eufrate
-Pellegrinaggio al Nejd
Parte V - L’ultima partenza
-Sheikh Obeyd, 1917 - Preparativi
-Newbuildings Place,1917 - Il patriarca mancato
-Sheikh Obeyd, 1917 - I giorni dell’esilio
-Newbuildings Place, 1917 - Tamburi di guerra
-Sheikh Obeyd, autunno 1917 - Prima del silenzio
Parte VI – Risvegli
“Noi ci siamo nutriti della magia delle sabbie,
altri forse vi scaveranno i loro pozzi di petrolio
e con le loro merci si arricchiranno;
ma saranno arrivati in ritardo.
Perché i palmeti proibiti o la polvere di conchiglie
ci hanno donato la parte più preziosa di se stessi:
non avevano da offrire che un’ora di fervore,
e siamo noi ad averla vissuta”.
(Antoine de Saint-Exupéry: Terre des Hommes)
Indice
Scatole cinesi: quasi una prefazione
Parte I - Introduzione a una “storia segreta”
- Newbuildings Place, Sussex, Inghilterra, 1907
-Sheikh Obeyd, Egitto, 1907 - Il giardino egiziano
-Newbuildings Place, 1907 - Nella tempesta
-Sheikh Obeyd, 1907 - Inquietudine
-Newbuildings Place, 1907 - Intrighi all’ombra di Westminster
-Sheikh Obeyd, 1907 - Ricordando l’incendio di Alessandria
Parte II - L’eredità di Byron
-Newstwad Abbey, Nottinghamshire, Inghilterra
-La “principessa dei parallelogrammi”
-Incantatrice di numeri
-Semplicemente Anne King
Parte III - Un appassionato pellegrino byroniano
-Villa Caproni, lago Maggiore, Italia
-Newbuildings Place - Un matrimonio vittoriano
Parte IV - Cavalieri del deserto
-Le tribù beduine dell’Eufrate
-Pellegrinaggio al Nejd
Parte V - L’ultima partenza
-Sheikh Obeyd, 1917 - Preparativi
-Newbuildings Place,1917 - Il patriarca mancato
-Sheikh Obeyd, 1917 - I giorni dell’esilio
-Newbuildings Place, 1917 - Tamburi di guerra
-Sheikh Obeyd, autunno 1917 - Prima del silenzio
Parte VI – Risvegli
Scatole cinesi: quasi una prefazione
Su uno degli scaffali della libreria Ferjani, nel centro di Tripoli di Libia, il libro attirò la mia attenzione per la copertina gialla su cui spiccava la sagoma scura di un beduino che, in groppa a un dromedario, reggeva uno svolazzante stendardo. Non potei credere ai miei occhi quando realizzai di essermi imbattuta nel Pellegrinaggio al Nejd di lady Anne Blunt, un libro che cercavo da anni, per quanto saltuariamente, in Inghilterra. Fu quello un altro passo che mi avvicinava a personaggi che avevo incrociato più volte nei miei percorsi di studio e di viaggio: Anne e il marito Wilfred Blunt, nomi imprescindibili nei compendi di viaggiatori-esploratori ottocenteschi dell’ancora misterioso Levante - come veniva allora chiamato il Vicino Oriente - delle cui vicende avevo preso ad occuparmi con una passione che, con il passare degli anni, si è rivelata indefettibile. C’erano infatti, ad attirarmi inesorabilmente verso la loro avventura umana, due dettagli appena accennati nelle loro sommarie biografie: lady Anne era l’unica nipote di Byron, e Wilfred – anch’egli poeta – era noto per aver suscitato a suo tempo vespai di polemiche nell’impero britannico come appassionato sostenitore del nazionalismo arabo, opponendosi con irriducibile vigore all’establishment tardo-vittoriano al quale apparteneva per diritto di nascita. E non meno affascinante era lo scenario in cui si svolsero le loro vite, divise tra gli ultimi bagliori dell’imperialismo vittoriano e l’emergere alla ‘modernità’ dei popoli arabi.
Dopo aver accolto l’impulso di raccontare la loro storia, per anni mi sono dibattuta in un rompicapo di scatole cinesi cercando di comporre nelle pagine – per un ipotetico lettore distratto e poco addentro ai segreti giochi degli imperi - quel senso, quella consequenzialità che intravvedevo a tratti, conoscendo a fondo i modi apparenti e l’indubbia grandezza, così come le oscurità e le menzogne, dell’Inghilterra vittoriana, e al tempo stesso l’ingiustizia che il Medio Oriente ha subito quando il cosiddetto Occidente ha interferito con la sua Nahdha, il suo Rinascimento, occultando per contro le molte segrete trame che hanno avviato e nutrito gli odierni rancori dei popoli del dar al-islam. Come far emergere – ancora mi chiedo - macroscopici eventi e non meno importanti sfumature attraverso la vicenda umana di lady Anne, testimone di primo piano di quel tempo così gravido di future conseguenze? Che cosa privilegiare, visto che dalle molte pagine che pure scrisse la sua persona si disegna più per assenza, in contrasto alla prepotente presenza di Wilfred? E, forse ancora più importante, che cosa lasciar perdere? I Blunt vissero infatti in un’epoca in cui l’alta società e i suoi scandali erano più che mai inseparabili dagli intrighi dell’alta politica.
Un quarto di secolo dopo, il ricordo del grande evento aveva ancora il potere di trasmettergli fremiti di collera e di passione. Era stato in quella circostanza che – travolto dalla scoperta del grande meccanismo che governa la storia - aveva spezzato i propri legami con la tribù dei costruttori di imperi. Con gli artigli ormai spuntati da una vecchiaia piena di malanni, etichettato – e così reso innocuo – dalla definizione tutto sommato benevola di eccentrico che si era guadagnato da quando aveva smesso di infastidire i potenti e di creare scandalo tra i benpensanti, Wilfred Scawen Blunt – alta e ossuta figura di patriarca biblico, avvolto in un ampio burnus beduino – poteva finalmente permettersi di rompere il silenzio, dando alla stampa la versione che la “verità ufficiale” aveva messo a tacere delle vicende di cui era stato attivo testimone. Intinse la penna nell’inchiostro, la estrasse facendo scorrere il pennino sul bordo del calamaio, lentamente, per eliminare l’eccesso di liquido vischioso e al contempo disciplinare le parole in una forma il più possibile fedele al mercuriale frammentarsi dei ricordi, delle immagini, della passione ancora viva. Poi, con un gesto deciso, concluse la prefazione al suo testo. “C’è un limite alla reticenza cui sono tenuti uomini pubblici negli affari pubblici e confido che il mio silenzio lungo un quarto di secolo mi giustificherà se ora rendo conto della mia condotta nell’unico modo possibile per me, esponendo dettagliatamente la drammatica vicenda di intrighi finanziari e debolezza politica che scoprii in quelle circostanze e che documenti ancora in mio possesso possono provare. Se la suscettibilità di alcune persone importanti sarà toccata da un racconto troppo fedele ai fatti, posso dire che la mia necessità di parlare è la conseguenza della loro totale mancanza di sincerità e generosità nei miei riguardi. In tutti questi anni, nessuno di quelli che sapevano la verità ha detto una sola parola di giustificazione per me”.
Quella di Blunt era una soddisfazione tardiva più che una vendetta, dato che ormai la pubblicazione della sua Storia segreta dell’occupazione inglese dell’Egitto non avrebbe più creato scalpore. La versione scritta dai vincitori, infatti, era ormai accreditata da gran tempo e nessuno avrebbe avuto interesse a rimetterla in discussione. Del resto, quasi tutti i protagonisti di quegli epici giorni lontani erano usciti di scena, a cominciare da lord Cromer (1), il “faraone” che aveva retto l’Egitto con pugno di ferro dal 1883, quando il paese era stato occupato dagli inglesi.
Assorta, lady Anne osservò a lungo una fotografia, prima di sistemarla nell’album accanto a un’altra che - scattata quell’anno da Gertrude Bell – la ritraeva in sella alla sua bianca Fasiha, di lontano, nell’abbigliamento arabo che usava indossare in Egitto. La fotografia, inquietante, era invece quasi un primo piano: vi appariva seduta in posa eretta, quasi regale, in un’imponente poltrona-portantina di vimini. Nel volto minuto dal contorno non più netto solchi sottili di rughe circondavano come una fitta ragnatela le labbra, allungandosi ai lati del mento per tracciarvi due profonde trincee. Gli occhi malinconici fissavano direttamente l’obiettivo attraverso un paio di occhiali rotondi che non nascondevano occhiaie profonde. Un’ampia kuffiya, fermata da un doppio agal al modo arabo, le nascondeva i capelli avvolgendole il capo – che da anni copriva per nascondere i danni dell’erisipela, la malattia della pelle che la tormentava - e pure araba era la veste che, drappeggiandosi attorno al corpo minuto, ricadeva sullo sgabello imbottito dove appoggiava i piedi. Contrastavano con questo abbigliamento arabo le mani guantate, l’una che si aggrappava, o forse cingeva in posa graziosa una delle due sottili colonne di vimini che formavano la struttura della portantina, l’altra che impugnava un lungo bastone da passeggio. Su un tavolo – appoggiato contro un muro dall’intonaco grossolano, interrotto da un chiaro tendaggio ricamato – erano posati libri e fasci di carte. La luce si diffondeva intensa sulla superficie dell’immagine, ma il viso della donna le si sottraeva, restando parzialmente in ombra.
Lady Anne osservava il proprio volto con una certa curiosità, quasi fosse il volto di una sconosciuta. Da qualche tempo si interessava alla fotografia: le piaceva ritrarre i suoi cavalli con l’equipaggiamento che aveva appena acquistato e anche se lamentava i limiti dell’apparecchio fotografico, che non le permetteva di riprenderli in movimento come avrebbe voluto, era comunque una novità rispetto ai disegni e agli acquerelli la cui esecuzione le veniva ormai tanto naturale quanto la redazione del diario quotidiano.
Primi europei a giungere a Al-Hadr – l’antica Hatra dei Parti distrutta nel III secolo d.C. - i Blunt ne apprezzarono, in una distesa di splendidi fiori primaverili, le rovine simili a quelle di Ctesifonte, con mura e torri ancora in buono stato e sale fatiscenti ornate da pilastri scolpiti con gruppi di volti. Colpita dalla bellezza degli antichi resti, Anne li riprodusse in un gran numero di disegni molto dettagliati, inseguita da uno stuolo di bambini beduini che presero a lanciare sassi contro le colonne, per gioco, ma con costernazione dei Blunt che si affrettarono a far ritorno al campo. Nonostante la cortesia di Smeyr, non vedevano l’ora di riprendere la via del deserto. Rapportarsi con i beduini e i loro modi risultava piuttosto faticoso per loro, e si sentivano in certo qual modo in colpa verso il loro ospite perché non solo volevano evitare di incontrarsi con il suo capo, Ferhan pascià, ma preferivano invece raggiungere Faris, di cui sapevano che era stato avvistato nei pressi del fiume Khabur, un affluente dell’Eufrate. Una volta rimessisi nuovamente in viaggio, dovettero anche liberarsi di un certo Ismail e di due schiavi neri – tutti membri dell’entourage di Ferhan – che praticavano una sorta di terrorismo psicologico sostenendo che la via del nord era estremamente pericolosa e che sarebbe stato inevitabile capitare nel bel mezzo di un ghazzu degli Anazeh, la qual cosa, a dire il vero, ai Blunt non sarebbe dispiaciuta affatto.
Attraversando la zona montuosa del Sinjar transitarono da alcuni villagi di curdi yezidi (11) con i caratteristici turbanti neri, e ne appresero le curiose tradizioni religiose. Erano a tre giorni da Nisibi quando ebbero notizia che l’elusivo Faris che stavano inseguendo era diretto a Deyr, e finalmente riuscirono a raggiungerne l’accampamento, in uno uadi candido per una distesa di camomilla in fiore. Bello ed aitante, Faris li accolse con un sorriso di benvenuto: aveva sentito parlare di loro e sapeva che volevano incontrarlo. “I suoi modi sono molto diversi da quelli dei beduini che abbiamo incontrato fino ad ora nel deserto: egli è aperto e cordiale come se si sentisse così sicuro della sua posizione da poter fare a meno della rigidità e della falsa dignità che i bedu esibiscono in presenza di stranieri” annota Anne, entusiasta del giovane capo. “In verità, sarebbe difficile trovare un uomo più bene educato. Penso che abbiamo finalmente trovato quello che andavamo cercando ma non credevamo possibile esistesse: un gentiluomo del deserto.” Nel campo di Faris la persona di gran lunga più importante era sua madre, la Hatun Amsheh che – già descritta come una giovane bellezza dall’archeologo Layard nel 1843 – era ora tanto vecchia e grassa quanto autorevole. Del resto, i Blunt si erano già resi conto che “in più di una tenda, è nell’haramlik - la parte riservata alle donne – che si svolge la politica della tribù”. In quanto madre, oltre che di Faris, anche di due coraggiosi guerrieri shammar che, impiccati dai turchi, erano diventati leggendari nel deserto, la Hatun era una sorta di personaggio sacro, oggetto di venerazione da parte di tutte le tribù della Mesopotamia settentrionale. La sua famiglia era considerata la stirpe reale degli Shammar perché era stato un antenato dei suoi figli – il capostipite Faris – a condurli dal Nejd verso l’Eufrate duecento anni prima. Ormai però l’unità degli Shammar si era spezzata e, divisi come erano, non potevano più stare alla pari con gli Anazeh.
Wilfred e Faris simpatizzarono fin dal primo momento e il capo beduino raccontò all’ospite che il suo fratellastro Ferhan non era riconosciuto come legittimo capo dagli Shammar indipendenti perché era figlio di una donna di Baghdad e inoltre, avendo sposato una curda, aveva figli di sangue misto. “Non è affatto un beduino, ma un fellah e un raya” (12) disse disgustato Faris, alludendo anche al fatto che, accettando il titolo di pascià, Ferhan si era venduto ai turchi che avevano impiccato i suoi fratelli. Dei suoi rapporti con la Sublime Porta Faris disse che erano stati nulli fino al mese precedente, quando il governatore di Deyr – che, siriano di nascita, aveva una certa simpatia per i beduini del suo distretto – lo aveva convocato per affidargli dietro compenso il compito di mantenere l’ordine fra le genti del deserto. Affascinata da Faris, Anne ne eseguì un ispirato ritratto, mentre Wilfred accettò di buon grado la proposta di stringere con lui un gemellaggio di sangue, secondo l’uso beduino.
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Il pensiero del settantasettenne poeta inchiodato alla sua poltrona di invalido – e alla croce del proprio egocentrismo – tornava spesso al Nejd, a quel catalizzatore di illusioni, di miraggi, e alla possibilità di rigenerazione che gli avevano suggerito le notti stellate, l’ascetica ampiezza degli orizzonti. Quel ‘pellegrinaggio’ nel deserto compiuto alle soglie dei quarant’anni lo aveva colpito forse nello stesso modo in cui aveva toccato Anne, ma opposte erano le conclusioni che ne aveva tratto. Forse ognuno trova soltanto quello che sta cercando. Della religiosità dei beduini, per i quali la fede in Dio non era che l’accettazione del destino a cui tutti dobbiamo sottostare, l’aveva colpito soprattutto l’essenziale semplicità. Essendosi sempre sentito inadeguato di fronte ai precetti cattolici, prigioniero delle pastoie di una ricerca razionale e bisognoso di credere in qualche forma di immortalità, aveva ammirato il fatalismo e la capacità di affrontare la morte e l’annichilimento di quei figli del deserto, come gli erano apparsi nella lettura delle Mo’allaqat preislamiche. Ancor più, tuttavia, ne aveva invidiato l’edonismo, la capacità di vivere nel presente che egli aveva trovato soltanto nei momenti appassionati dell’amore o nell’oblio. Le loro chiare, rigorose idee su cosa fosse giusto e cosa sbagliato non erano funzionali a placare un dio giudicante, pronto a premiare o a punire nell’aldilà, ma seguivano senza discussioni il corso del loro istinto e l’adesione a un’indiscussa tradizione. Più volte era stato sul punto di darsi all’islam - una fede semplice, che non coinvolgesse il suo intelletto – ma gli eventi e il suo carattere proteiforme l’avevano trattenuto, cosicchè l’anelito verso la religione restava un desiderio insoddisfatto, l’unica attrazione a cui non era riuscito ad abbandonarsi. Tuttavia, se la sua continua ricerca della felicità poteva chiamarsi fede, per questa si sarebbe battuto fino alla fine. Le memorie che aveva scritto negli ultimi anni - un compendio della società e dei grandi eventi del suo tempo (2) - erano forse la sua creazione più importante, la scommessa sulla propria immortalità letteraria. Quando riusciva ad essere sincero con se stesso, infatti, doveva ammettere di non essere più così certo del valore della sua poesia come era stato in gioventù. Quanto alla discendenza, sapeva di essere un patriarca fallito: persino Crabbet – l’antica proprietà di famiglia che confinava con i terreni degli Shelley (3) - gli era ormai preclusa da Judith, che gli impediva persino di vedere i suoi nipoti.
Quando si era creata la frattura che aveva trasformato Bibi, la ragazzina che l’aveva adorato, la sua compagna di cavalcate, la sua rivale in lunghissime partite a scacchi, in un’acerrima nemica, la vendicatrice di Anne? Wilfred non poteva negare che la giovinezza di Judith fosse coincisa con il periodo forse più sfrenato della sua vita. Aveva sempre saputo che, quando la scortava in società, gli occhi di sua figlia lo seguivano lanciandogli occhiate colme di rimprovero, ma aveva accolto con soddisfazione l’omaggio implicito in quella gelosia. Del resto, era forse colpa sua se le più belle signore dei circoli aristocratici l’avevano sempre considerato l’uomo più irresistibile di Londra? Aveva sempre saputo di essere un animale da preda.
Cieco come tutti i grandi costruttori di imperi alla vita dei sudditi e ai loro modi, Cromer si sarebbe certo stupito se avesse letto, solo due anni dopo la fondazione della sua Lega anti-suffragio, un piccolo pamphlet per l’emancipazione della donna che, intitolato Questioni femminili, era stato scritto da Malak Hifni Nasik, definita la Isabelle Eberhardt egiziana perché indossava indifferentemente abiti femminili e l’abbigliamento maschile dei beduini di al-Fayyum. Quest’opera, con altri scritti dello stesso tipo, è l’espressione del movimento chiamato al-Nahdha al-Nisa'iyya - il “risveglio della donna” - nel contesto più generale della-Nahdha dei popoli musulmani. In contrasto con il femminismo laico e occidentalizzante di altre attiviste e scrittrici, quello di Malak propugna il miglioramento della vita delle donne attraverso l’educazione e le opportunità di lavoro nel contesto di un islam riformato.
Molto più lungimirante e aperto al futuro di lord Cromer, un altro egiziano – il giudice Qasim Amin, nato in un harem dell’aristocrazia turca che dominava l’Egitto (31) - nel 1898 aveva scioccato il mondo musulmano pubblicando Tahrir al-mar’ah, “liberazione della donna”, un acceso manifesto in sostegno dell’educazione e dell’emancipazione femminile, e quindi contro l’uso del velo e la poligamia, che Atatürk avrebbe poi applicato alla lettera (32). Qasim era un nazionalista, odiava gli inglesi occupanti e li combattè anche militando per l’educazione e la liberazione delle donne, il cui contributo riteneva essenziale per emancipare la nazione egiziana dal dominio coloniale. Non a caso egli è infatti considerato il padre del femminismo arabo, che in Occidente ai non esperti sembra un ossimoro. Uno sceneggiato del 2002 dal titolo Qasim Amin – girato da In’am Muhammad Ali, una delle più audaci registe dell’Egitto – ha incantato gli arabi costringendoli a prendere in considerazione il punto di vista delle donne e a viverne le umiliazioni. Il fatto che Qasim si fosse identificato con la madre di umili origini invece che con il suo aristocratico padre turco, permette di cogliere il nesso tra l’umiliazione delle donne e l’umiliazione della patria.
Contemporaneamente alle lotte delle suffragette in Inghilterra, anche nel mondo musulmano – e in primo luogo in Egitto - non mancavano dunque avvocati della causa femminile, scrittrici e attiviste tra le più note delle quali si contano anche la poetessa Aisha Taymour e Safeya Zaghloul, la moglie del politico nazionalista fondatore del Wadf, che fu una femminista e una rivoluzionaria militante. Del 16 marzo 1919 è la prima manifestazione pubblica di donne al Cairo, riunite dalla femminista Huda Sharawi, che in quell’occasione fece novecento telefonate. “Viva l’indipendenza!” gridarono le donne che, affrontando le armi dei soldati britannici, sventolavano con fare deciso la grande bandiera verde con al centro una croce bianca intrecciata a una luna crescente: la bandiera dell’Unità Nazionale di Saad Zaghloul, il vessillo del popolo che doveva dire agli inglesi che tutto l’Egitto, cristiano e musulmano, voleva che se ne andassero. Per la circostanza il poeta e scrittore Hafez Ibrahim compose un poemetto che dice fra l’altro: “Elevando la loro protesta, le belle sono uscite./Il loro corteo sono andato a seguire./ Ecco che dei tristi abiti neri le belle/ fanno d’un tratto il loro stendardo./(…) la casa di Saad esse hanno come ultima meta” (33). Come le loro controparti europee, le manifestanti cairote avevano accorciato le gonne che – pur restando ben al di sotto del ginocchio – scoprivano le caviglie mostrando scarpine con il tacco, ma al posto dei cappellini delle europee avevano acconciature simili a quelle delle suore e nascondevano il volto sotto un bavaglio bianco che lasciava scoperti solo gli occhi.
Nel 1923 Huda Sha’rawi e le sue compagne – giungendo al Cairo di ritorno da Roma dove avevano partecipato all’annuale congresso femminista – si strapparono di dosso il velo con un gesto di grande impatto mediatico che causò scandalo, come aveva causato scandalo Qasim quando aveva attaccato l’uso del velo definendolo non-islamico. La Sha’rawi – che fondò l’Unione femminista egiziana e due importanti periodici femminili – sosteneva un femminismo panarabo che - sfidando l’ideologia del nazionalismo – faceva riferimento ai movimenti panarabisti come risposta al colonialismo. Forti del fatto che l’islam sostiene l’uguaglianza dei sessi, le femministe egiziane non intendevano sconvolgere l’ordine stabilito in campo religioso o sociale, ma cercavano di convincere i loro interlocutori che certe situazioni andavano modificate per giungere alla giustizia e all’equilibrio a cui il Corano invita. Anche il fondatore del Wadf, Saad Zaghloul, del resto, svolgeva la propria azione politica nell’ambito del riformismo musulmano, raggruppando sotto il proprio vessillo i discepoli di al-Afghani e Abduh, gli studenti partigiani dell’indipendenza e le donne dell’alta borghesia sensibili al pensiero di Qasim Amin.