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Premessa
Nella penombra di una navata della cattedrale di Otranto un minuscolo prete senza età – pelle incartapecorita e occhi limpidi – indica il grande albero della vita che, sorretto da due giganteschi elefanti, si distende sul pavimento – il tronco teso come una freccia verso l’altare – e mi sussurra: “Qui c’è tutto, tutto: cabala, islam, Bisanzio, l’Oriente e il mondo pagano; e tutti sono frutti dello stesso albero”. Poi, guardandomi con un ghigno da folletto birbone, aggiunge: “E’ la politica che spezza i rami, che nega i legami”. Alle sue spalle, disposte in ordine dentro teche di vetro alle pareti di una cappella laterale, stanno le ossa degli ottocento martiri decapitati dai turchi a fine Quattrocento, ma il vecchio prete non vi accenna nemmeno, forse perché comprende d’istinto che, a ben guardare, quando si crea una frontiera di divisione le cause degli eventi sono molto più variegate di quanto non appaia in superficie e la vera civiltà, comunque, ha un orizzonte più ampio, che trascende le miopi follie degli uomini (1). Questo stupefacente mosaico racconta - in una distesa di milioni di minuscole tessere colorate – le storie, i miti, le leggende dell’Eurasia, modellandone l’unità “dal Baltico alle sponde africane e asiatiche del Mediterraneo, dagli Urali all’Atlantico”, come leggo sull’opuscolo illustrativo della cattedrale. Se i rami sono molti, il tronco è unico, come ricorda – nel mosaico – anche quel potente simbolo che è la torre di Babele, la tremenda punizione del non comprendersi che, spezzando l’armonia, creando barriere, rappresenta il vero inferno. Grande canto corale, questo mosaico composto da un oscuro Pantaleone, monaco greco del XII secolo, esprime la visione unitaria di un Medioevo in cui Oriente e Occidente (2) non avevano ancora un concetto di prevalenza l’uno sull’altro. Così, nello spazio sacro e al tempo stesso pienamente a misura d’uomo di questa cattedrale romanica sulle rive del Mediterraneo, leggo - armonioso e inequivocabile - il messaggio che ho a lungo inseguito nei viaggi da cui sono nate le pagine che seguono.
Cercando la spezia araba.
“E’ una terra cui ora si dirigono le sciagure,
(…) col passo di lupi nella boscaglia.
Abitano forse ancora i nostri
una rocca in Castrogiovanni,
dove ormai è cancellata la traccia dell’islam?”
(Ibn Hamdìs di Siracusa, XI secolo)
All’alba del primo giorno di Ramadan nell’anno 580 dall’Egira – il 6 dicembre 1184 – sulla rotta di ritorno dal suo primo pellegrinaggio alla Mecca il dotto e poeta Ibn Jubair - segretario di un emiro almohade di Granada - vide profilarsi all’orizzonte, come un fantasma nella foschia, il “monte di fuoco” – l’Etna – e rese grazie ad Allah: la terra di Sicilia era ormai vicina. Il tragitto, che sarebbe dovuto durare un paio di settimane, si era invece protratto per due mesi a causa del maltempo pressochè ininterrotto che aveva costretto i passeggeri a corto di viveri a dividersi in quattro una misera galletta inzuppata in un po’ d’acqua. Ma gli imprevisti non erano ancora finiti: per un vento impetuoso che prese a soffiare al largo di Messina, “il legno andò ad urtare colla chiglia sulla costa, percuotendovi coi due governali, ossia i due timoni che servivano a governarla. (…) I cristiani già si abbandonavano alla disperazione, e i musulmani si rassegnavano calmi al decreto del loro Signore, chè altro loro non restava che appigliarsi ed affidarsi alla fune della speranza (dell’aldilà)”, come scrive il granadino nel resoconto del suo viaggio.
In questo modo avventuroso inizia il soggiorno siciliano di Ibn Jubair. Regnava allora sull’isola, strappata agli arabi un secolo prima, il re normanno Guglielmo II - non a caso detto il Buono- il cui comportamento colpì favorevolmente il viaggiatore musulmano fin dal momento del suo fortunoso sbarco, quando il sovrano si presentò sulla costa per presiedere personalmente al salvataggio dei naufraghi. Accortosi che un gruppo di musulmani era costretto a rimanere a bordo del relitto dal momento che i barcaioli andavano via via aumentando il prezzo richiesto per metterli in salvo, re Guglielmo pagò di tasca propria il pedaggio per quei poveretti, e “se così non fosse stato” commenta Ibn Jubair “i barcaioli avrebbero di certo fatta man bassa su quanto era sul legno e forse tutti i musulmani che erano a bordo sarebbero stati fatti prigionieri, essendo questa l’usanza del paese”. Quasi un millennio dopo, sulle stesse coste, in un mondo che pretende di essere un faro di civiltà cristiana, il Potere riserva un trattamento ben diverso ai naufraghi in cerca di ospitalità.
Dopo aver trascorso un po’ di tempo sull’isola, Ibn Jubair avrebbe fatto oggetto Guglielmo di quello che riteneva il massimo dei complimenti: “Rassomiglia ai musulmani per il vivere immerso nei godimenti del regnare e sa leggere e scrivere l’arabo”. Visitando la Sicilia, gli venne naturale paragonarla alla natia Andalusia per la qualità del vivere, le bellezze naturali e la fertilità dei raccolti, ma ebbe da ridire sul fatto che nelle campagne della zona orientale dell’isola, “popolate da adoratori della croce”, i musulmani – pochi, isolati e ridotti in condizioni di vassallaggio – dovessero pagare ai cristiani tributi in natura così pesanti da essere ridotti in uno stato di grave indigenza. Si consolò però viaggiando in direzione ovest e una volta giunto a Palermo - città splendida che gli ricordò Cordova per il suo impianto architettonico – trovò che i musulmani avevano ancora i loro mercati e “tante moschee da non contarsi” dove si recavano a pregare alla chiamata del muezzin. Quanto poi alle cristiane palermitane, si potevano scambiare per musulmane visto che, oltre a parlare correttamente l’arabo, se ne andavano in giro velate, avendo adottato come una moda l’abbigliamento delle donne dell’islam.
La convivenza fra cristiani e saraceni alla fine del XII secolo – quando a Otranto il monaco Pantaleone eseguiva il suo mosaico - poteva dirsi pacifica, come Ibn Jubair testimonia, soprattutto a Palermo e alla corte normanna. Re Guglielmo si fidava dei suoi sudditi musulmani al punto di avvalersi della loro opera anche in campi piuttosto delicati: non solo infatti se ne contavano molti fra i suoi ministri, ma c’era un intero reparto di stirpe araba nell’esercito normanno, musulmano era un corpo di schiavi negri come pure il soprintendente della cucina reale e musulmane erano tutte le ancelle e le concubine della corte. Sembra quasi di vedere Ibn Jubair mentre, a caccia di notizie interessanti per arricchire il suo diario di viaggio, ascolta pettegolezzi e informazioni che gli vengono sussurrate in confidenza da saraceni impiegati a corte, come il servo di nome Yahya ibn Fityan, una delle sue fonti più accreditate. Yahya lavorava come ricamatore in oro nel celebre tiraz (1) palermitano, la manifattura di tessuti di fondazione araba che i Normanni avevano riattivato e sviluppato grazie anche all’opera dei bizantini esperti nella lavorazione della seta che Ruggero II aveva catturato nel corso della sua spedizione del 1147 in Grecia. Le sontuose vesti di incoronazione di Ruggero, e in particolare la dalmatica - tunica in seta di manufattura bizantina ma ricamata da esperti artigiani musulmani – sono un prodotto di questa collaborazione, e solo tre anni prima del passaggio da Palermo di Ibn Jubair nello stesso tiraz era stata preparata anche la veste per l’incoronazione di Guglielmo II - usata in seguito per Federico II e ancora, nel 1520, per Carlo V- i cui bordi, ricamati in oro, perle e pietre preziose, portano due iscrizioni, una in latino ma l’altra in arabo.
Probabilmente Yahya ibn Fityan aveva visto questa preziosa dalmatica in lavorazione, ma non è di questa che parlò al viaggiatore suo correligionario; gli confidò invece qualcosa che gli stava molto più a cuore, un’ informazione quasi incredibile, cioè che “le donne cristiane di nazionalità franca che capitano a corte si fanno musulmane, convertite dalle ancelle ad insaputa del re”. Il re, del resto, era ampiamente tollerante: come gli informatori del granadino si premurarono di raccontargli, nel corso di un recente, fortissimo sisma, Guglielmo – percorrendo impaurito i corridoi del suo palazzo echeggiante di grida – si era imbattuto nel personale musulmano che invocava ad alta voce Allah e il Profeta e quando, vedendolo, essi zittirono come un sol uomo, disse loro di invocare pure liberamente la divinità in cui credevano. D’altro canto l’imparziale Ibn Jubair raccoglie anche le critiche mosse dai suoi correligionari al sovrano cristiano e ai suoi preti, che non perdevano occasione per indurre all’apostasia fanciulli e donne musulmane: e questa era in effetti la più dura delle prove per gli arabi di Sicilia, che “vivono nel timore che capiti loro quel che accadde in passato ai musulmani di Creta, sui quali non cessò mai la tirannide dei cristiani e che furono tutti forzati a convertirsi”.
Ottocentoventi anni dopo il soggiorno in Sicilia di Ibn Jubair, sbarco all’aeroporto di Punta Raisi con l’intento di andare a cercare le tracce del lontano passaggio dell’islam sull’isola. Fin dal primo giorno, visitando Erice, vengo colpita dalla straordinaria ricchezza di suggestioni propria di questa terra mediterranea e di tutte le terre che, allo stesso modo, furono un crocevia di popoli: ibridi luoghi di molte, indefinibili frontiere e passaggi, dove mondi diversi – incontrandosi, scontrandosi – si arricchirono di elementi nuovi, si appropriarono di forme aliene reinterpretandole in nuove sintesi e facendole proprie. In una cappella della chiesa Matrice - edificata con materiale ricavato dal tempio di Venere Ericina - oggi, venerdì santo, fioriscono sul pavimento due fragranti “giardini di Adone” composti per l’occasione con foglie, petali di fiori, spighe, grappoli d’uva e la tenera peluria chiara dei chicchi di grano fatti germogliare al buio. E’ l’antico mito greco della rinascita che, fatto proprio dal cristianesimo siciliano, rivive annunciando che la morte non è che il passo necessario per la resurrezione. Il soffitto però – ricostruito in stile neo-gotico dopo un rovinoso crollo alla metà dell’Ottocento – è una suggestiva citazione moresca: disegnati da poderosi cordoli spiraliformi, gli spicchi in cui sono suddivise le volte racchiudono splendidi arabeschi di stucco che - l’uno diverso dall’altro - disegnano curve sinuose, motivi di stelle e ghirigori a merletto che, ispirati alla tradizione di ricamo locale, nel complesso richiamano atmosfere tipicamente islamiche.
Camminando lungo i vicoli stretti, funzionali a contrastare gli implacabili raggi del sole, la “spezia araba” che vena il mondo siciliano – benchè forse più sommessa che in Andalusia – è chiaramente percepibile: nel grido modulato di un venditore, nel trascinarsi discordante di certe melodie, negli aromi della cucina locale che esibisce zuccherosi, profumatissimi dolcetti di mandorle e couscous di pesce – nonché “couscous moresco” tout court !- , in certe fragranze esotiche fin troppo dolci, come quello delle zagare – dall’arabo zahra, fiore – “quel profumo islamico che evocava urì e carnali oltretomba”, come scrive Tomasi di Lampedusa. Oltre a queste suggestioni e a numerose e più concrete derivazioni lessicali, tutto quello che resta dei due secoli di dominio arabo sull’isola è mediato dall’interpretazione che ne diedero i Normanni i quali, nel periodo di circa un secolo in cui tennero la Sicilia, vi prolungarono l’arabismo salvando il meglio dell’eredità islamica.