"Uno dei drammi più spaventosi dell’imperialismo europeo in Medio Oriente si è svolto in Palestina: è questo un argomento di cui mi occupo ormai da due decenni, con una indignata costanza che mi ha portata a raccogliere più di un centinaio di libri e centinaia di articoli. Da questo lavoro è nato – frutto anche di una vicenda personale - il mio sofferto e molto documentato “Gli spinosi cactus di Palestina e Israele”. Claudia
In questa gelida domenica del gennaio 2009, le bandiere palestinesi sventolano, nella piazza centrale della città indifferente, brandite da mani che si sollevano in alto, sopra le teste della folla, nascondendo alla mia vista gli oratori che si susseguono su un palco improvvisato, sfiorano una bambola avvolta in stracci insanguinati, issata su un bastone tenuto da una donna, sfiorano le fotografie ingigantite di bambini feriti, di cadaveri ammucchiati su un selciato: il massacro quotidiano compiuto nell’impunità da una occupazione illegale che si consuma lontano da qui e che i nostri media venduti alla menzogna non mostrano nelle sue immagini crude, che non hanno bisogno di parole. Dall’alto dell’Arena romana, un dimostrante arabo vestito di bianco sventola vigorosamente una bandiera palestinese solitaria: sulle vecchie pietre illuminate dal sole al tramonto, uno striscione proclama l’ingiustizia che si perpetua da sessant’anni nei riguardi della Palestina. Sulle mastodontiche colonne della pomposa facciata finto-neoclassico del Municipio, si accendono luminarie natalizie fuori tempo – cascate di fili blu che apparentano l’edificio già brutto di per sé al non-luogo di un orrido casinò di Las Vegas – e alla sua base, in fila serrata, i poliziotti in divisa antisommossa, con i loro scudi trasparenti, sembrano manichini di un’assurda rappresentazione. A che cosa pensano, dietro le facce impenetrabili?
Altre bandiere sventolano, le bandiere arcobaleno: ma, mi chiedo, che cosa significa ripetere pace, in questo caso specifico e – più in generale – nelle vicende mediorientali? Meglio sarebbe issare la bandiera della giustizia, che è il presupposto della pace. E per far questo bisognerebbe innanzitutto, in quanto occidentali, riconoscere che la nostra mano pesante, che alla fine della Grande Guerra ha segnato confini arbitrari funzionali al proprio esclusivo interesse, ha responsabilità immense negli odierni eventi e innanzitutto nelle vicende della Palestina. Invece, l’ingiustizia continua, ed è foriera di odio sempre nuovo se anch’io – persona mite, sempre in lotta con me stessa per cercare una visione obiettiva, corale – mi sento travolgere da una furia insana mentre, in questa folla di immigrati che liberano la loro voce e sollevano la testa, alzo le braccia per gridare con loro “Bush, Barak, assassini!” e “L’Intifada vincerà!”, che significa “la resistenza vincerà”.
Questo è un momento importante, che vede le prime manifestazioni in Europa organizzate da immigrati, e sono fiera di esserne testimone. Sono con loro, con questi vecchi dalla faccia rugosa che vengono da lontano, con i giovani che esibiscono con fierezza – come me del resto – la kuffiya palestinese a quadri neri e bianchi -, con le donne dignitose che, raggruppandosi in un fronte compatto circondate dai loro bambini, portano in prevalenza l’higiab – un higiab scelto come segno identitario prima che religioso da queste emigranti -, ascolto – lieta di cogliere qui e là la traccia delle sue parole - l’eloquio in ottimo arabo classico dell’imam yemenita che invita alla preghiera, sorrido alle persone che conosco – i musulmani che ho incontrato nel mio lavoro volontario in un ambulatorio Caritas, un paio di mie insegnanti di arabo, un giovane amico palestinese, un altro afgano, le intrepide “Donne in nero” sempre in prima fila contro le ingiustizie - ma soprattutto perseguo un dialogo ininterrotto con me stessa.
Non sono qui per orientalismo, anche se di questo mi accuserebbero forse, vedendomi, conoscenti “di sinistra”: intellettuali che mai si espongono, e che pur appartenendo a istituti cittadini che studiano la Resistenza, non si degnerebbero mai di apparentarle quella dei palestinesi alla loro ormai quarantennale occupazione, una resistenza la cui legittimità la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani riconosce peraltro ai popoli occupati. Conoscenti “di destra” – e dannata sia questa perversione tutta italiana di etichettarsi per opposti schieramenti – con aria saccente e paternalista, esibendo magari un tocco di cinismo di classe, scuoterebbero la testa al mio “ingenuo idealismo”. Le opinioni - o i pregiudizi - degli uni e degli altri, tuttavia, non mi toccano più: i miei molti viaggi nel Medio Oriente, lo studio della sua civiltà e storia, la conoscenza dei meccanismi della lingua araba mi autorizzano ad esprimermi con maggior conoscenza di causa della maggior parte di loro. C’è poi la massa di libri che, in anni di studio, ho letto sulla questione israelo-palestinese: una valanga di dati, di fatti, che mi hanno portata negli anni a una furibonda indignazione. Ed è proprio la capacità di indignarsi attivamente contro l’ingiustizia - rifiutando il crimine del politically correct, un altro muro, che serve da alibi - a mancare oggi in Occidente. Vi prospera invece come una mala pianta – del resto moneta corrente da sempre – il senso di superiorità nei riguardi degli “stranieri”: quelli che compongono la maggioranza di quel mondo che il nostro ha arbitrariamente definito “terzo”, quelli definiti “extra-comunitari” dalla tribù dei fortunati comunitari, coloro cioè che sono dotati di un comune passaporto color amaranto, un magico lasciapassare alle frontiere del mondo, coloro che fino a sessant’anni fa si sono scannati e che ancora oggi diventano sodali solo quando si tratta di difendere qualche privilegio comune, piuttosto che i grandi principi ideali di cui si ammantano a parole. Al senso di superiorità del club dei “comunitari” si aggiunge poi, nei riguardi dei musulmani in genere e degli arabi in particolare, una forte ostilità atavica e irrazionale . (E mai, ovviamente, si parla degli “ieratici” signori del petrolio, tanto ossequiati in Occidente quanto uniformemente disprezzati dai popoli arabi.)
Io sono oggi in questa piazza affollata di “stranieri” per protestare per il massacro che Tsahal - l’esercito di Israele, quarta potenza militare del mondo - sta compiendo a Gaza, e perché detesto l’indifferenza, “la più terribile delle malattie” . Quelli che non si muovono oggi per la Palestina certamente sarebbero stati muti anche di fronte alle famigerate leggi razziali che a suo tempo discriminarono gli ebrei: non si può infatti negare che, come disse lo psicologo Bruno Bettelheim, fu “soprattutto il silenzio che li ha condannati”, il silenzio dell’Occidente. Io non voglio appartenere al grigio branco degli indifferenti, a proposito dei quali il poeta premio Nobel Joseph Brodskij, a conclusione di una sua intensa poesia, scrive: “Il Tempo, che con la punta tagliente/ del suo pennino assetato di sangue/ separa le vittime dagli assassini,/ scriverà tra questi il nome / di quelli come te”.
Lotta al terrorismo? Sicurezza? Memoria? Democrazia? Queste parole logore, svuotate del loro significato autentico, sono spaventapasseri per babbei, applicate come etichette a contenitori di scenari diversi, a seconda di quello che fa comodo ai potenti. Chi è il terrorista? Alla sicurezza di chi si allude? Di che cosa è oblio questa sbandierata memoria? Che cosa si intende per democrazia? Si è infatti ben visto che quando un popolo elegge democraticamente una rappresentanza a cui l’Occidente è ostile – come nel caso di Hamas - allora la parola democrazia non viene più sbandierata, si trascura la volontà della maggioranza e il popolo che ha “sbagliato”a dare il proprio voto viene punito affamandolo e bombardandolo, chiuso in una prigione a cielo aperto, senza uscite, come è la Striscia di Gaza. E chi, alle nostre latitudini, si sofferma a distinguere fra terrorismo e resistenza? Come fa notare Arundhaty Roy, esistono anche terrorismi di Stato e terrorismi economici, praticati da “rispettabili” signori in giacca e cravatta, uomini delle multinazionali, membri della Banca Mondiale e del Fondo Monetario, e via di seguito. Oggi invece va per la maggiore far passare per terrorista chi non piega la testa ai dettami della volontà del più forte.
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Tra le alture del Golan, su due colli che, sponde opposte di due Stati nemici, si fronteggiano, i membri di famiglie divise dal confine stabilito di fatto dalla guerra - siriani giunti in pullman da Damasco o dalle zone limitrofe, e siriani sotto occupazione israeliana - dal 1967 ogni venerdì, dopo la preghiera, si danno appuntamento per parlarsi, gridando nei megafoni offerti dagli osservatori ONU. In linea d’aria li separano solo i 300 metri della valle che, occupata da Israele e chiamata appunto “ valle delle grida”, costituisce una barriera invalicabile di mine interrate, filo spinato e sentinelle armate. Il regista israeliano Eran Riklis e la sceneggiatrice israelo-palestinese Suha Arra, come risultato di tre anni di viaggi in questa zona di confine a ridosso delle alture del Golan occupato, hanno raccolto molte storie – drammatiche, surreali, bizzarre – da cui è nato La sposa siriana, un film politico intessuto di amara ironia, in cui il matrimonio di una giovane drusa sotto occupazione è il catalizzatore delle contraddizioni politiche, sociali e culturali all’interno della sua famiglia.
Quanto ai 70.000 drusi che nel ’48 si trovarono invece dentro i confini di Israele – e che vivono in una quindicina di villaggi in Galilea e un paio ai piedi del Carmelo – abbandonarono il campo palestinese e si schierarono con i sionisti nell’occupazione di due villaggi che la spartizione aveva assegnato allo Stato di Palestina. Incorporati nell’IDF, questi drusi vennero assegnati ad unità che in seguito sarebbero diventate uno strumento per eseguire la pulizia etnica della Galilea. Infatti, invece di mostrare solidarietà e compassione per i palestinesi tra i quali avevano vissuto, “molti di loro contribuirono alla distruzione della Palestina rurale alla quale – tragicamente – anch’essi ovviamente appartenevano”. Con i 350 circassi che come loro si erano uniti alle forze ebraiche, questi drusi formarono il nucleo della futura Polizia di frontiera israeliana e, avendo accettato di sottomettersi ad Israele, sono l’unico gruppo non ebreo che ha il dubbio “onore” di essere chiamato alla coscrizione obbligatoria. Con lo scopo di separarli ancor di più dagli arabi palestinesi, lo Stato sionista ha anche rafforzato il loro particolarismo con la fondazione nel 1976 del Dipartimento per l’Istruzione drusa. Accanto ai drusi e ai circassi, nel Golan pre-occupazione viveva anche un certo numero di curdi, alcuni dei quali, completamente arabizzati, vivevano da nomadi, mentre altri erano commercianti residenti a Qunaitra, e altri ancora i più grandi latifondisti del Golan.
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Dietro la tenda dell’Olocausto
“Se avessi guardato in faccia la vittima e pensato,
Avresti ricordato tua madre nella camera a gas
Ti saresti liberato della ragione del fucile
E avresti cambiato idea:
Non è così che uno ritrova la sua identità.”
(Mahmud Darwish, poeta palestinese)
Israele è nato come idea nei circoli sionisti in seguito a discriminazioni e pogrom subiti nei secoli dagli ebrei nel mondo cristiano, ma il progetto si è realizzato pienamente come “risarcimento” per il terribile crimine perpetrato contro di loro nella civile Europa del XX secolo. Con l’indulgenza con cui si tratta un bambino sofferente, viziato per debolezza e senso di colpa dei genitori, l’Occidente ha permesso a Israele – identificato collettivamente, e a torto, come vittima dell’Olocausto - di diventare a sua volta un carnefice che, violentando il popolo palestinese, scarica su questo l’odio generato dall’Olocausto nazista. Israele infatti non odia i tedeschi: l’odio è stato trasferito sui palestinesi, quasi a voler applicare contro questo popolo il biblico imperativo dell’ “occhio per occhio”. Se negli anni cinquanta vi fu nello Stato ebraico un grande dibattito perché molti non volevano accettare risarcimenti dalla Germania, alla fine questi risarcimenti furono bene accolti, e per decenni la Germania ha pagato congrui indennizzi ai sopravvissuti della Shoah e allo Stato israeliano che si è autonominato, in modo che moltie ebrei contestano, a loro unico rappresentante.
Israele al contrario non ha mai nemmeno pensato di scusarsi con le vittime della Nakba né si è mai parlato di offrire loro – se non il ritorno indiscriminato - almeno dei compensi, come invoca la risoluzione 242. Fu solo Moshe Sharett, ministro degli Esteri al tempo in cui iniziarono le trattative con la Germania per i risarcimenti, ad avanzare la proposta che una parte di questi venisse trasferita ai profughi palestinesi, ma questa proposta non ebbe alcun seguito. Sari Nusseibeh, rettore dell’Università araba al-Quds di Gerusalemme, scrive di aver parlato a un pubblico israeliano della tradizione palestinese della sulha - il rituale della giustizia tribale, che è più una questione di onore che di denaro - per far comprendere ciò che Israele dovrebbe fare per compensare il trauma della Nakba palestinese. “Poco importa se avete o meno deliberatamente provocato la tragedia dei palestinesi (…), la tragedia ha avuto luogo, anche se solo come conseguenza indiretta delle vostre azioni. Dovete farvi avanti e offrire le vostre scuse. Solo così i palestinesi sentiranno che la loro dignità è stata rispettata e potranno perdonare. Respingere invece ogni responsabilità, oltre che essere storicamente assurdo fino alla follia, provocherà un antagonismo eterno – una ricerca incessante di vendetta”.
E’ stato dunque il senso di colpa dell’Occidente a permettere a Israele di dotarsi illegalmente dell’arma atomica, mentre affermava che non avrebbe mai introdotto per primo armi nucleari in Medio Oriente. Tutti sanno infatti che lo Stato ebraico le possiede, ma ufficialmente non se ne parla, mentre il paese è addirittura diventato il fustigatore degli Stati limitrofi che vorrebbero produrne. E’ degli anni ottanta il bombardamento di una centrale irachena da parte di Israele, che oggi è trattenuto a stento dall’infliggere un simile trattamento ai progetti nucleari iraniani.
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Chi può negare che l’enfasi posta sulla memoria dell’Olocausto degli ebrei – “apartheid della memoria” lo definisce Garaudy – abbia sostanzialmente un fine propagandistico per lo Stato di Israele? E a proposito di memoria, Eyal Sivan in un’intensa intervista cita Goethe, che quando sentiva questa parola si chiedeva che cosa fosse stato dimenticato. Infatti, come afferma Sivan, “la memoria non è l’opposto dell’oblio, al contrario, dove c’è memoria c’è anche oblio. Se la memoria è collettiva prevede una forza che la organizzi e la indirizzi, dunque una politica dell’oblio. L’uso strumentale della memoria, infatti, serve sempre per far dimenticare qualcosa, ed è così che nelle mani di un regime duro e fascista diventa una giustificazione: facendo ricordare o conoscere alla gente solo ciò che ha subito e non ciò che fa o ha fatto, rende accettabili decisioni che altrimenti non lo sarebbero. Si usa la Shoah, che pone gli israeliani nella posizione di vittime, per giustificare questa figura che per definizione appartiene al bene. Come tali, come vittime appunto, ci opponiamo all’idea che possiamo avere in altre parti una responsabilità. Parliamo della Shoah per giustificare Israele e cancelliamo la Nakba palestinese del 1948. La dualità è qui: la memoria della Shoah è l’oblio della Nakba”. Non solo, ma questa memoria così viva riguardo all’Olocausto europeo, è anche l’oblio della Diaspora che era il mondo yiddish, cancellata come la memoria degli ebrei nei paesi arabi in nome del “nuovo cittadino di Israele”, il sabrà, che non solo non rappresenta la cultura ebraica, ma ne testimonia l’estinzione. Non siamo i campioni mondiali delle vittime, dice Sivan: il trauma della Shoah e quello della Nakba devono coabitare, riconosciuti entrambi nello stesso modo. Nel 1990, al festival di Marsiglia, Sivan ebbe il primo premio per il suo documentario Izkor, gli schiavi della memoria, una riflessione appunto sulla strumentalizzazione della memoria della Shoah nel sistema educativo israeliano.
In uno degli ultimi capitoli del suo imprescindibile libro Il settimo milione, Tom Segev, a proposito del viaggio ad Auschwitz dei giovani di un liceo israeliano cui egli partecipò – un “viaggio impregnato di nazionalismo e di religione”, con una chiara dimensione politica, che “non nasceva dal desiderio di apertura e dall’amore per l’umanità, ma da un isolazionismo ai limiti della xenofobia” - scrive: “Il libretto ministeriale diceva che la Polonia appoggiava l’autodeterminazione dei palestinesi e le loro organizzazioni terroristiche, quasi si trattasse delle stessa cosa. Non precisava che il diritto all’autodeterminazione dei popoli è un diritto universale”.
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La questione israelo-palestinese è davvero la migliore esemplificazione della vecchia fiaba del Lupo e l’Agnello di Esopo: quanta saggezza nelle antiche storie che abbiamo tradotto da bambini! “In Israele le parole hanno un senso orwelliano”, commenta Jeff Halper, “pace vuol dire suicidio, la guerra corrisponde alla pace, così come ritirarsi in realtà vuol dire espansione e rafforzamento”.
Guerra di parole e sequestro del linguaggio sono anche le parole cancellate, cioè i nomi degli oltre quattrocento villaggi palestinesi distrutti a partire dalla Nakba, la cacciata degli arabi di Palestina nel 1948. In questo caso sono i cactus, tenacemente ostinati - allo stesso modo dei fatti rispetto alle opinioni - a rendere testimonianza. Questi pazienti cactus che in siepi delimitavano le proprietà palestinesi, per quanto sradicati tendono infatti a rispuntare, segnalando qui e là i villaggi distrutti e privati persino del loro nome in una feroce damnatio memoriae. In arabo cactus si dice saabar, parola che ha la stessa radice di sabr, pazienza, una “qualità molto palestinese ma molto poco israeliana”, come scrive Michel Warschawski. In ebraico sabrà è il fiore/frutto del fico di Barberia, e da questo nome vennero chiamati sabraim i giovani nati in Israele dopo il 1948, che si volevano duri esteriormente ma teneri e dolci all’interno. Questi sabrà però - simbolicamente germogliati su siepi di pazienti cactus palestinesi sradicati e negati – sono fioriti su una terra promessa loro al di fuori di ogni diritto solo per i giochi di potere dei vincitori della Grande Guerra: una terra strappata con l’inganno, con una spregiudicata conquista e con la complicità del cosiddetto “mondo civile” che non aveva saputo contrastare la politica da cui era scaturito l’Olocausto.
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A più di quarant’anni dall’occupazione della Cisgiordania e di Gaza nel 1967, i palestinesi vengono ancora derubati della loro terra e delle sue risorse: e sebbene tutto questo accada in violazione del diritto internazionale, Israele continua a farla franca.
Eppure, nonostante la potente macchina propagandistica israeliana proclami il contrario, in tutto questo tempo la lotta dei palestinesi per uno Stato degno di tal nome è stata perlopiù non violenta, come non violenta è oggi la tenace lotta di Bil’in, di Na’alin, di Jayyous - dove, separando il 70% delle terre coltivate dagli abitanti, sradicando cinquemila alberi e rendendo inaccessibili sei bacini idrici sotterranei, è stata distrutta l’economia locale - e di altri luoghi che tentano di resistere alla costruzione del muro che cancellerà in quelle località ogni vita produttiva. Tuttavia, i metodi di lotta pacifica non hanno mai sortito alcun risultato. Al contrario, sembra che siano le azioni violente e il “sangue dei martiri” a fare il gioco di Israele, che può così appellarsi al terrorismo dei “barbari” e utilizzare il mantra della “sicurezza” per perseguire impunito le sue normali politiche di sopraffazione e rimozione dell’Altro, inascoltato, stoccato e rimosso dietro a un possente muro di oblio: il muro del resto previsto dal sionismo fin dalla sua comparsa sulla scena mediorientale. A proposito di Bil’in, Mohammed Khatib, il leader del gruppo di palestinesi, israeliani e internazionali che si radunano ogni venerdì per una pacifica protesta nei pressi del muro – qui alto 14 metri, per proteggere una parte della tentacolare colonia di Modin Illit, costruita sulle antiche terre del villaggio - ha detto di credere che Israele stia cercando di schiacciare gli attivisti non violenti perché vorrebbe piuttosto fomentare una insurrezione armata. Nel mondo alla rovescia che ha sconvolto il nostro pianeta, nel dicembre 2009 Khatib – che i soldati sempre minacciano di ammazzare come hanno fatto con uno dei suoi amici - è stato arrestato – nella sua casa, durante il solito raid notturno - con l’accusa di “incitamento alla violenza”!
“A noi palestinesi sembra che, ogni volta che la pace si avvicina, Israele si scateni. Sembra che per loro la vera minaccia sia la pace, non tanto i palestinesi”, osserva acutamente il professor Sami Basha, dell’Università di Betlemme. “La pace significa convivenza: e mi viene il dubbio che gli israeliani non vogliano convivere con noi. La pace significa sicurezza, e forse loro vivono ancora un’insicurezza di fondo che si sono portati dietro dall’Europa e che è diventata una vera patologia imposta ora dal loro governo. Nei giornali gli israeliani leggono sempre questi continui allarmi per la loro sicurezza. ‘Attenti, gli arabi vi minacciano!’. Anche al checkpoint noto questo: il soldato mi punta contro l’arma sempre e comunque, senza conoscermi. Sono un professore universitario, ma potrei essere un kamikaze e lui intanto punta l’arma preventivamente. Rifiutano il dialogo, rifiutano l’altro, a causa della loro insicurezza. La pace minaccia la loro esistenza” (NOTA: Cfr. Bocchescucite, gennaio ’09).
Nelle sue analisi lucide e imparziali, anche Sari Nusseibeh è giunto a questa stessa conclusione. “I leader israeliani erano particolarmente mendaci (…), perfino più disonesti dei nostri dirigenti, un’impresa non da poco”, scrive del clima negli anni ottanta. “Non volevano ammettere che il conflitto riguardava principalmente le terre conquistate nel 1967, proprio come non osavano annettere quelle che chiamavano 'Giudea e Samaria’, perché sapevano che il mondo non li avrebbe mai sostenuti. Non solo la legge internazionale proibisce l’espropriazione dei territori conquistati in guerra: questa era l’ultima delle loro preoccupazioni. Ma sul piano emotivo, va contro ciò che viene definito fair play privare un popolo del 78% della sua terra, costringendolo in gran parte all’esilio, e poi, qualche anno più tardi, rubargli anche il poco che gli rimane. (…) L’ultima cosa che Israele voleva era che simili opinioni si diffondessero fra la gente che sapeva pensare. La chiave era di conseguenza la violenza. Israele la usava spesso come mossa tattica per prevenire una reazione violenta, che veniva poi impiegata come scusa per ulteriori violenze a fini politici. I suoi leader volevano dare l’impressione che la loro fosse una guerra per la vita e la morte contro una banda di spietati terroristi (“l’organizzazione assassina più crudele della storia”, secondo Begin) dedita al genocidio di Israele. Il ‘terrorismo’ era il motivo della loro presenza nei territori, e il terrorismo era il motivo per cui creavano insediamenti ‘difensivi’”.
Nel 1982, un funzionario governativo confessò a un giornalista di Ha’aretz che era una ‘catastrofe’ che i palestinesi stessero rifuggendo dal terrorismo.
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A più di un anno e centinaia di pagine da quando, in un livido giorno del gennaio 2009, ho appeso alla mia finestra la bandiera palestinese e iniziato a viaggiare nella storia di Palestina-Israele, sento ancora più profondamente il peso dell’ingiustizia subita dalla Palestina. La sua umiliazione è anche la mia, e anch’io mi sento senza voce. L’Università della formazione e del tempo libero con cui ho lavorato per anni non mi ha più chiamata, in conseguenza delle mie lezioni sulla questione israelo-palestinese, che pure mi erano continuamente richieste. E chi mai pubblicherà questo mosaico di citazioni, che tale vogliono essere queste pagine? Guardo sconsolata la mole dei ritagli di giornale che ho raccolto per anni, sfoglio l’ottantina di libri tra cui ho viaggiato, libri violentati da molteplici sottolineature, in colori diversi, e vorrei continuare all’infinito a scrivere, a collegare insieme voci diverse, per non perdere nemmeno un pensiero, un paesaggio, un’immagine che possa dare rilievo, sfumature, consistenza all’infinita umiliazione e all’ingiustizia subita dal popolo palestinese, al dolore della gente di cui nessuno raccoglierà la storia. Un dolore consumato nel silenzio, o raccontato solo da pochi giornali alternativi, liberi dal pensiero unico che ci ammorba in questo Occidente così “liberale” che sa guardare all’Altro da sé solo con razzismo oppure con condiscendente buonismo: le due facce della stessa medaglia, che escludono entrambe il rispetto dovuto ad ogni essere umano. Nonostante tutto, cerco di ricordare che la ruota gira inesorabilmente, e che c’è un tempo per vincere e un tempo per perdere, perché nessuna apparente vittoria dura per sempre.
Dall’alto della sua superdifesa fortezza, tanto più violento quanto più sente di essere un modello in via di auto-estinzione, l’Occidente e i suoi sodali gridano contro il pericolo dei “barbari”, senza accorgersi che in realtà stanno guardando il proprio volto.
“Inciderò il nome di ogni zolla rubata
e dove erano i confini del mio villaggio;
quali case furono distrutte,
quali alberi sradicati, che minuscoli fiori schiacciati.
Per ricordare tutto questo. E continuerò ad incidere
ogni atto della mia tragedia, ogni frase della catastrofe,
ogni cosa, grande e piccola,
su un olivo nel cortile di casa mia”
“Ma quanto a lungo dovrò continuare ad incidere?”, si chiede Emil Habibi. “Quanto velocemente passeranno questi anni di oblio, cancellando tutte le nostre memorie? Quando saranno lette le parole incise sull’olivo? E ci saranno ancora olivi nei cortili?”