"Li ho riletti uno ad uno, questi foglietti scritti di fretta all'ambulatorio, fra un appuntamento da dare e una scheda da compilare. Minuscoli cammei, trasparenti fino a svanire se confrontati con la valanga della Storia contemporanea. Avrei voluto creare dei ritratti per bucare con storie individuali il guscio dell'indifferenza, ma non tutti hanno voglia di raccontare a un 'estranea le proprie odissee, e a me non piace inventare, rimpolpare con parole mie la scarna ossatura del vissuto altrui. Ci fosse un Capa, un Cartier Bresson, mi sono detta, a immortalare in un solo scatto fotografico alcuni di questi visi - gli occhi, la sofferenza, la rassegnazione, i lampi di ribellione non sempre trattenuti -, molti di questi sconosciuti che ho incrociato sarebbero potuti diventare persone, un nome, un simbolo."
Il giorno dell’iscrizione alla scuola media di Binta, i racconti di Maiga sulla terra di confine tra l’Africa nera e quella araba, il grido del Forum sociale mondiale di Bamako, le meravigliose biblioteche del deserto della Mauritania… Gli ambulatori e le scuole di italiano per migranti restano straordinari spazi di relazioni sociali nei quali emergono ogni giorno sguardi nuovi sul mondo, come dimostra il libro di Claudia Berton Nel mondo alla rovescia: appunti da un ambulatorio per immigrati ( Ed. Zambon), di cui pubblichiamo ampi stralci di un paragrafo Comune-info.
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La frontiera si imprime sui corpi,
si sposta con le persone che la attraversano,,
che sia il deserto, la Libia, il Mediterraneo,
Lampedusa, il confine turco-siriano o Ventimiglia”,
(MH, Mediterranean Hope)
All’ambulatorio che vedevo sempre più come un termometro degli eventi del mondo, cominciarono ad arrivare giovani del Mali – altissimi, prestanti e poco disposti a sorridere o comunicare1 – che avevano lavorato in Libia fino allo scoppio della guerra. Uno in particolare – che portava un orecchino e una maglia azzurra simile a quella della nazionale di calcio italiana – mi fece pensare ai famosi mercenari che si diceva Gheddafi avesse assoldato. Cominciai a rivolgergli qualche domanda assai neutra, giustificandomi per questo con un timido “sono una scrittrice”. “Che lingua parla?”, gli chiesi innanzitutto nel mio goffo francese. A quelle parole sorrise, un largo sorriso che però non raggiungeva gli occhi, per la prima volta da quando era entrato. Disse di parlare bambara – la lingua dell’etnia bambara, quattro milioni di persone, che in Mali è la lingua franca – ma di essere di etnia peul, una etnia antichissima2. Aggiunse che in Mali tutte le etnie sono uguali, perché “c’è democrazia”. Poi però, mostrandomi una mano deformata priva di mignolo, bisbigliò: “Non posso tornare in Mali, ho avuto un incidente” e, in un sussurro: “In moto”. Poi, contraddicendo l’affermazione precedente e scuotendo la testa disse, come parlando a se stesso: “In Mali c’è la rivoluzione”. A quel punto, più ardita, gli chiesi dei tuareg e nominai l’Azawad. “I tuareg fanno la rivoluzione, sono razzisti. Gheddafi sosteneva questa loro rivoluzione. Ma in Libia si stava bene, c’era lavoro, si potevano mandare soldi a casa, in Mali. Non osai chiedergli che lavoro avesse fatto in Libia. Fattosi più loquace, raccontò di essere arrivato in barca a Lampedusa con degli amici. “Ci hanno identificati e noi del Mali abbiamo fatto domanda per ottenere l’asilo politico”. Era alloggiato per il momento in uno dei dormitori della Caritas.
In quel periodo la più giovane delle mie figlie stava facendo un’intensa esperienza di volontariato insegnando italiano a dei giovani immigrati in una struttura gestita da un’associazione a cui erano affidati. Le ho chiesto di raccontarmi la sua esperienza e lascio dunque a lei la parola.
“È iniziato tutto in modo raffazzonato, in una specie di vuoto che si era creato tra due associazioni legate al dormitorio comunale di Via Campofiore dove erano stati collocati i ragazzi: un’associazione di sostegno ai tossicodipendenti che pure dormivano lì, e un’associazione invece nata per aiutare proprio i rifugiati in attesa di asilo. Erano ospitati lì circa una ventina di persone, una decina di africani, in gran parte musulmani – Djanko, Keita, Kissima, Assumana – di diversi paesi, ma la maggior parte provenienti dal Mali e Gambia, uno della Guinea Bissau e una decina di bengalesi, molti dei quali di Dakha, tutti musulmani a parte un indù, Kamol. Di lì a poco un gruppo di ragazzi ai cui era stato riconosciuto l’asilo in prima turnata – ma in base a criteri abbastanza aleatori, a quanto ne ho capito – è stato spostato in un altro dormitorio. Nei mesi, poi, sono stati mandati allo stesso dormitorio anche tre ragazzi nigeriani, cristiani di varie confessioni.
Fin dall’inizio si sono creati due gruppi distinti: ovviamente tutti i bengalesi – dei quali molti si conoscevano già – stavano tra di loro, mentre una sorta di solidarietà africana si è creata tra gli altri, anche se venivano da paesi differenti del continente. In realtà li accomunava tutti il fatto di essere arrivati insieme, se non sulla stessa barca […].
Il mio ruolo era riempire un poco le ore vuote che trascorrevano lì, in un ambiente – il dormitorio Campofiore – davvero un po’ degradato e desolante: muri scrostati, aria viziata, senso di abbandono. La responsabile dell’associazione dei tossici ed alcolizzati mi aveva fatto capire che tra i due gruppi – cioè tra rifugiati stranieri ed emarginati italiani – non correva buon sangue. […]. Il mio progetto era di dar loro un’infarinatura di italiano. Ho procurato a mie spese quaderni, penne, una lavagna e dei libretti per bambini, assieme a pile di fotocopie da libri specifici. Mi sono subito resa conto, però, che era un’impresa difficile. C’erano enormi differenze tra i miei “allievi”. Il primo impatto mi ha colpita molto: ho detto a ciascuno di scrivere il proprio nome su un foglietto, e mi sono scontrata per la prima volta con l’analfabetismo. […]
Ho cercato così di differenziare le lezioni, aiutando chi non sapeva scrivere con dizionari illustrati ed esercizi per bambini. Agli altri cercavo di insegnare parole, qualche regola grammaticale per usare i tempi, i possessivi, frasi utili. Era però molto difficile gestire l’ordine e gli orari. Molti di loro non erano puntuali, altri non venivano regolarmente. C’era invece chi era molto diligente e si applicava con dedizione. Kamol, il ragazzo indù, era sempre puntualissimo e molto rispettoso. Alla fine gli ho regalato un libro perchè facesse pratica da solo. Tutti mi ringraziavano molto, quando andavo via, e insistevano perché mi fermassi a cenare con loro. Al mio rifiuto – dicevo sempre che per me era troppo presto – insistevano per regalarmi una mela o una banana. […] Quanto agli analfabeti bengalesi, di cui due erano già padri di famiglia, mi sembravano meno vulnerabili – almeno apparentemente – perché il loro gruppo era più coeso, e avevo l’impressione che usciti dal dormitorio avrebbero trovato dei contatti – conoscenti o lontani parenti – che li avrebbero aiutati ad integrarsi. […]
Il ragazzo della Guinea Bissau, con una camicia candida e sempre uno walkman alle orecchie, era sempre sorridente e scherzoso. Pure lui era analfabeta, e ho scoperto che in patria aveva perso tutti i familiari: era solo al mondo. […]”.
Un giorno, all’ambulatorio, io invece ho conosciuto Binta. Giovanissima, timida, molto graziosa, accettò di rispondere alle mie domande in sala d’aspetto dell’ambulatorio. Era l’ultima paziente della mattina, l’occasione era favorevole perché eravamo rimaste sole nella stanza. Parlava un ottimo francese. Aveva frequentato i primi due anni della facoltà di Scienze politiche ed economiche a Bamako. Avrebbe voluto diventare avvocato. Orfana di madre in tenera età, alla recente morte di suo padre la matrigna voleva costringerla a diventare la quarta moglie di quello che Binta definì “un vecchio”. “Non volevo, avevo un compagno di studi a cui volevo bene”, sussurra. Sembra la storia di Cenerentola. Parlando, non mi guardava mai negli occhi, e ripeteva spesso che aveva paura. Con l’aiuto di amici che avevano raccolto dei soldi per lei è scappata. Burkina Faso, poi Niger. “Agadez?” incalzai. Annuì. “Con i trafficanti?”: annuì ancora. In Libia aveva viaggiato sui mezzi pubblici, era pericoloso, aveva paura, sempre. Mi chiedevo cosa avesse vissuto questa bella ragazza in quel pellegrinaggio di violenza e miseria, sotto la “protezione” mercenaria dei passatori. E il mare? “Tanta, tanta paura”, sussurrò Binta. Arrivata in Sicilia, le vennero prese le impronte ma poi fu libera di andarsene. Aveva trovato due compagne di viaggio e insieme raggiunsero Napoli, poi Roma, quindi Binta aveva proseguito per Verona, dove si era rivolta alla Questura e aveva chiesto l’asilo.
“Come hai trovato le persone che qui si sono occupate di te?”, le chiesi. “Dure, specie quelle che mi hanno dato i vestiti. Sono arrivata lo scorso autunno, vestita con vestiti tradizionali del Mali, leggeri. C’era freddo qui”. Ora in attesa che sia esaminata la sua richiesta di asilo la cooperativa che l’ha in carico l’ha collocata in un appartamento in periferia con altre tre ragazze rifugiate. Ne è molto contenta. La seconda volta che venne all’ambulatorio la invitai a mangiare una pizza con me. Ne mangiò metà appena, ma cominciò almeno a guardarmi negli occhi. Guidata dalle mie domande, completò il racconto della sua fuga da Bamako. Il ragazzo a cui voleva bene l’aveva aiutata a organizzare in segreto la sua partenza. Era cristiano, e la sua matrigna non le avrebbe mai permesso di sposarlo. Le chiesi quante lingue parlasse oltre al francese: “Il bambara”, mi rispose, “è la mia lingua. Mio padre era un bambara di Timbuktu, e poi il peul, perché mia madre era una peul”.
Mi sorprese che, nel mese trascorso dal nostro primo incontro, avesse imparato a capire e parlare l’italiano così bene, solo frequentando un corso di lingua di due ore per quattro giorni settimanali. Mi disse che voleva prendere un diploma per poter lavorare. Il suo certificato di maturità era a casa della matrigna, e mi resi conto che non avrebbe mai accettato di chiederglielo, come le avevo suggerito. Le dissi che mi sarei informata su quali certificati dovesse avere per iscriversi a una scuola italiana. Prima di fuggire era riuscita almeno a prendere il proprio certificato di nascita. Parlammo dell’islam, e a proposito dei terroristi disse che quelli non sono veri musulmani, e che è tutta una questione politica. “Chi ha iniziato tutto questo?”, incalzai. Mi rispose: “Les Etats Unis”. Parlando con Binta compresi che per lei era molto importante tornare a scuola, e il primo passo era ottenere un diploma di scuola media. Così, quando in un giorno di pioggia primaverile siamo uscite dalla scuola dove avevamo fatto l’iscrizione al corso per la licenza, e l’ho vista fotografare la scritta “Scuola media statale Dante Alighieri”, ho provato una forte commozione, che ho nascosto chiedendole: “Sai chi era Dante?”. E’ ben vero che l’istinto dell’insegnante non si spegne mai.
Pensavo a Bamako, salito alla ribalta nel 2006 quando vi fu tenuto un Forum sociale che fece nascere molte speranze – ormai svanite – riunendo persone, non governi, anche se purtroppo i media occidentali non lo coprirono quasi per niente. […]3 In quei giorni fervidi di speranze era diventata famosa in Europa anche l’attivista e autrice maliana Aminata Dramane Traoré che, coordinatrice del programma di sviluppo ONU, criticava la globalizzazione e le politiche economiche dei paesi sviluppati del “primo” mondo, soprattutto i sussidi ai loro produttori di cotone che svantaggiavano i paesi produttori dell’Africa occidentale sui mercati occidentali. Sulle dune di Essakane, un’oasi a nord di Timbuctu, si teneva già da cinque anni un celebre festival dove la musica maliana incontrava la poesia tamasheq dei tuareg, animata da una struggente vena di nostalgia per la vita libera nel deserto, e il gruppo più rappresentativo erano i Tinariwen. Si dice che il padre del fondatore del gruppo, Ibrahim, fosse fuggito in Algeria portandolo sulle spalle, prima di essere ucciso dai soldati maliani nel 1963, al tempo della prima ribellione dei tuareg4. Dove è finita quella musica, e dove le speranze del Mali di allora? Ora l’immensa zona sahelo-sahariana è sempre più preclusa ai viaggiatori, diventata una sorta di incubo come nella distopia di Barzakh, il libro dello scrittore mauritano Moussa Ould Ebnou5, che racconta la storia di un uomo che, rivivendo nel futuro, trova un Sahara disabitato e diventato la discarica del mondo. Pensavo alle preziose biblioteche del deserto: quelle di Timbuktu nel Mali e quelle della Mauritania […].
La Mauritania è stata per molti secoli un centro d’irradiamento culturale in cui l’acquisizione e la diffusione del sapere dominavano la vita degli uomini e costituivano un’attività di fondamentale importanza. L’antichissima oasi di Chinguetti – famosa per la sua antica biblioteca, la più nota ma non l’unica nel cuore del Sahara occidentale6 – nacque inizialmente per servire le rotte carovaniere legate al grande commercio trans-sahariano, e come le altre oasi su questa via ben presto divenne un centro d’insegnamento religioso, con moschee e scuole coraniche la cui fama si diffuse fino in Arabia, lungo la via del pellegrinaggio alla Mecca. Fu in questo fervido clima culturale che si formarono appunto le numerose “biblioteche del deserto”, le cui migliaia di manoscritti riguardanti vari campi del pensiero umano, dalla religione alla storia, dalla filosofia alla matematica e alla medicina, richiamarono intellettuali e studiosi da tutto il mondo arabo per secoli, oltre ad alimentare la nascita di un’intensa attività editoriale. La cultura non era un patrimonio elitario ma informava la società, tanto che intorno al XVI secolo in ogni casa di queste città si trovava almeno un erudito.
A ricordare quei tempi, quasi in ogni zaouia dei sufi, presso gli accampamenti e le vecchie famiglie tribali, nelle biblioteche locali o nelle rare biblioteche di Stato – in Mauritania, Marocco, Mali, Niger e Algeria – sono tutt’oggi conservati, mentre le dune di sabbia avanzano implacabili, centinaia di migliaia di manoscritti antichi depositari della memoria storica dei popoli sahariani e saheliani. L’intellettuale nigerino Boubou Hama diceva che “le idee viaggiano come gli uomini. Intere biblioteche che noi credevamo per sempre disperse, seguirono invece per generazioni i nomadi attraverso il deserto e le savane, e oggi, fortunatamente, le stiamo ritrovando”. Tuttavia, ai predoni – locali e occidentali – non interessano le biblioteche del deserto ma beni molto più concreti economicamente. Eppure questi manoscritti che il clima secco del Sahara ha conservato per secoli hanno molto da insegnare: ricordano che le civiltà finiscono, che nessuna dura per sempre, e ricordano anche che l’islam – diversamente da quello che i media vogliono comunicare – è stato nei secoli una splendida forza fertile e civilizzante, che si è sempre arricchita negli incontri. Il cammino della storia ha fatto poi emergere la civiltà occidentale, che ha imposto con violenza il proprio modello distruggendo molti altri modi di vita, disegnando confini, fermando i nomadi, ipostatizzando l’economia di rapina. Anche questo modello, però, che è fiorito solo per un attimo, se consideriamo i tempi dell’universo, è agli sgoccioli, insostenibile. E la ruota gira implacabile.
Nuovamente, nel Mali c’è uno stato di guerra, che si collega – nel solito effetto boomerang prevedibile da tutti ormai, ma all’apparenza non da chi ha interessi da sostenere con le armi – con la destabilizzazione violenta della Libia. […]
Ho incontrato H. Maiga all’ambulatorio: pelle scurissima e un largo sorriso che metteva in risalto una candida dentatura in cui però il dentista trovò poi, con mia sorpresa, numerose carie. Cominciammo una sorta di dialogo fra sordi perché sosteneva che H. era il suo nome e Maiga il cognome, cognome tipico di Timbuktu, il suo luogo di provenienza. “Ma allora Maiga nella scheda dovrebbe precedere il nome”, ribattevo io. Rideva e scuoteva la testa, e alla fine mi mostrò il suo documento di richiedente asilo politico, dove il nome precedeva il cognome. Era evidente che anche i redattori del documento avevano fatto confusione: succede spesso dalle nostre parti, con nomi stranieri e inconsueti. H. mi raccontò che a Timbuktu c’è oggi il caos, “tra jihadisti, qaedisti e tuareg. E tutto è cominciato con la distruzione della Libia, le armi vengono da lì”. Nel corso del successivo appuntamento mi disse che il cognome Maiga indica i songhai di Timbuktu7 eredi del grande impero che si era formato intorno al corso del Niger, in posizione strategica fra l’Africa nera e quella araba. Islamizzato dall’XI secolo, l’impero fu distrutto a fine cinquecento da un esercito della dinastia marocchina dei sadiani che, guidato da un rinnegato spagnolo, giunse nelle terre dei songhai per impadronirsi dei giacimenti d’oro e dei ricchissimi mercati del sale e degli schiavi della regione, ed ebbe la meglio grazie all’uso delle armi da fuoco. Parlammo ancora dei “terroristi” che oggi si dividono Timbuktu, del suo passaggio dalla Libia devastata e del suo viaggio attraverso il Mediterraneo: con un ampio sorriso – o un ghigno sarcastico? – e scuotendo la testa esclamò: C’est la mort!”, e non compresi a quale di questi scenari si riferisse. Forse a tutti e tre. […]
L’attuale Mali fece un tempo parte di tre imperi dell’Africa occidentale che controllavano il traffico trans-sahariano8. Nella sua epoca d’oro, il XIV secolo, vi fiorirono la matematica, l’astronomia, l’arte e la letteratura. Alla fine dell’Ottocento, durante la corsa europea all’Africa, la Francia prese il controllo del Mali, chiamandolo Sudan Francese. All’epoca il grande campione della resistenza tuareg ai francesi nell’Air fu il mitico Kaossen che, preveggente, aveva detto al suo popolo: “Voi non avete alleati né tra i musulmani né tra gli infedeli e non ne avrete mai. Non ci rimane che andar d’accordo tra noi e combattere da soli e per noi stessi”. Nel 1918 Kaossen, in fuga dai francesi attraverso il deserto libico, cadde nelle mani dei turchi che in passato l’avevano aiutato. Accusato di tradimento, venne impiccato e i suoi compagni furono perlopiù massacrati dai turchi o sottomessi dai francesi9. I confini coloniali sono assurdi, disegnati in funzione delle risorse che si volevano sfruttare. Misero insieme i tuareg, i mitici “uomini blu” del nord, con i popoli neri del sud, e furono mantenuti anche dopo l’indipendenza del Mali nel 1960 10. Anche dopo la divisione da parte dei francesi dell’area sahelo-sahariana, tuttavia, i tuareg – tradizionalmente nomadi e pastori – potevano tranquillamente attraversarli, ma con l’indipendenza dei nuovi Stati come l’Algeria, il Mali, il Niger, vennero fermati dai loro gendarmi che controllavano le carovane dei nomadi esigendo da loro, che non sapevano nemmeno leggere, passaporti e visti. “Chi ha tracciato, con righelli e coordinate astronomiche, i confini africani11 ha acceso la miccia di decenni di ingiustizie. Quel geografo stolto e avido si è poi seduto su una poltrona di velluto rosso in qualche capitale europea e ha atteso l’esplosione dei paesi che aveva appena disegnato sul suo personale planisfero”12.
Scrive Marco Aime19: “Le ribellioni dei tuareg sono iniziate subito dopo l’indipendenza. Già nel 1963 il regime di Keita inviò le truppe nel nord del paese per controllare le popolazioni locali. Il “controllo” venne fatto con mano pesante, massacri di persone e bestiame e numerosi villaggi incendiati. Le grandi siccità degli anni settanta acuirono poi la crisi spingendo i tuareg verso sud, dove si scontrarono con le popolazioni contadine locali, le cui colture non potevano sostenere le grandi mandrie degli uomini del deserto. Scontri e battaglie, acuiti dalle restrizioni sulla spesa pubblica imposte dal Fondo monetario, continuarono fino ai primi anni novanta, poi la pace fu siglata con il governo, che fece la promessa di maggiori incentivi per le regioni del nord. Oggi i tuareg non lottano per un’indipendenza dallo Stato spinti soltanto da un anelito di libertà e identità, come spesso ci piace immaginare, ma piuttosto per raggiungere una pari opportunità di miglioramento economico e sociale. Il nord è infatti la regione più povera e arretrata del paese, ignorata per decenni dai governanti maliani: niente scuole, niente ospedali, nessun piano di sviluppo, solo un forte controllo militare. Sono queste condizioni che hanno fatto nascere le velleità di indipendenza, non un presunto spirito etnico dei nomadi”. Dopo essersi alleato con i movimenti jihadisti che hanno preso Timbuctu nel 2012, il movimento tuareg MNLA è passato a sostenere l’operazione francese “Serval”. Ora però il governo del Mali dovrebbe finalmente considerare lo sviluppo dell’Azawad e quantomeno la sua autonomia da Bamako.
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Note
1 Quando africani e asiatici che lavoravano in Libia sotto il regime di Gheddafi hanno cominciato ad approdare in Italia, la prima ondata, composta soprattutto da giovani tunisini, ha preso la strada della Francia grazie al permesso umanitario voluto dall’allora ministro Roberto Maroni. Ma quando Parigi ha chiuso le frontiere, lo stesso Maroni ha varato una strategia federalista: ogni regione ha dovuto accogliere un numero di profughi proporzionale ai suoi abitanti. A coordinare tutto è stata la Protezione civile, che da Roma ha incaricato le prefetture locali o gli assessorati regionali come responsabili del piano di accoglienza. Nella fretta, però, non ci sono state regole per stabilire chi potesse ospitare i profughi e come dovessero essere trattati. L’assistenza si è trasformata così in un grosso affare per molti italiani disonesti: bastava una sola telefonata per venire accreditati come “struttura d’accoglienza” e accaparrarsi 1.200 euro al mese per ogni persona: una vera manna per centinaia di alberghi vuoti, ex agriturismi, case-vacanze disabitate, residence di periferia e colonie fatiscenti
2 I peul o fulani erano tradizionalmente pastori della regione sahelo-sahariana, che si sono in parte sedentarizzati e in maggioranza islamizzati e vivono in una quindicina di paesi dell’Africa occidentale. Costituiscono uno dei più grandi gruppi etnolinguistici africani con 40 milioni di persone, ma sono uno dei popoli più ampiamenti sparsi e culturalmente diversi tra i popoli dell’Africa. Circa 13 milioni sono ancora nomadi, costituendo il più grande gruppo nomadico al mondo. In Mali si parlano dodici lingue corrispondenti ad altrettante etnie, che hanno sempre convissuto pacificamente)
3 Cfr. Marco Boccitto: “Bamako, il Forum che non c’è”, in: Il manifesto, 22-1-2006. Scrive ancora Boccitto: “Nella capitale maliana non s’è visto Bob Geldof né sono previsti concertoni in stile Live, quindi chissenefrega. Assenti Bono, Blair e gli amici di Washington, un po’ repubblicani ma sinceri amanti del “continente nero”. In Mauritania, oltre che a Chinguetti, si conservano antiche biblioteche a Ouadane, Oualata, Tichitt, in Niger ad Agadez e a Niamey, in Marocco a Tamgrud e Smara, in Algeria a Béjaia. A Béjaia venne a studiare Fibonacci, il matematico di Pisa del XII-XIII secolo, grazie in parte anche al quale si diffusero poi in Europa, proprio partendo dall’Università di Béjaia, i numeri arabi. Lo studioso veronese Attilio Gaudio, etnologo, antropologo, giornalista e famoso africanista morto per un incidente nel 2002, ha dedicato gli ultimi anni della sua intensa vita a far conoscere al mondo intero questo inedito patrimonio culturale sahariano)
4 La prima formazione dei Tinariwen avvenne nei campi in Libia dove Gheddafi addestrava i tuareg
5 Cfr. M. O. Ebnou: Barzakh, ed. L’Harmattan
6 In Mauritania, oltre che a Chinguetti, si conservano antiche biblioteche a Ouadane, Oualata, Tichitt, in Niger ad Agadez e a Niamey, in Marocco a Tamgrud e Smara, in Algeria a Béjaia. A Béjaia venne a studiare Fibonacci, il matematico di Pisa del XII-XIII secolo, grazie in parte anche al quale si diffusero poi in Europa, proprio partendo dall’Università di Béjaia, i numeri arabi. Lo studioso veronese Attilio Gaudio, etnologo, antropologo, giornalista e famoso africanista morto per un incidente nel 2002, ha dedicato gli ultimi anni della sua intensa vita a far conoscere al mondo intero questo inedito patrimonio culturale sahariano
7 Disse anche che a Timbuktu oltre ai songhai ci sono i peul e i tuareg, e che questi ultimi “molto, molto tempo fa” erano anch’essi songhai. Non ho verificato la veridicità di questa affermazione
8 L’impero del Ghana, l’impero del Mali e l’impero songhai
9 Cfr. Mano Dayak: Sono nato con la sabbia negli occhi, ed. Aviani. Era il periodo in cui, nel corso della prima guerra mondiale, nel Nordafrica turchi e tedeschi stavano passando all’offensiva. Banditi armati collegati con i senussi, che odiavano i francesi, ne approfittarono per raddoppiare le incursioni nel deserto e assassinarono nel suo eremo a Tamanrasset padre Charles de Foucault, ritenuto un agente francese al soldo del generale Laperrine. La colpa del crimine ricadde sui tuareg, di cui invece de Foucault era amico e della cui cultura si era occupato. Mano Dayak fu una carismatica personalità tuareg, colto e intraprendente, politicamente impegnato per difendere il suo popolo nonché uno degli artefici della pace nel Niger. La sua vita si concluse in giovane età nel 1995 per un incidente aereo molto sospetto: l’esplosione al decollo del Cessna su cui viaggiava mentre si stava recando dal primo ministro nigerino per convincerlo ad applicare gli accordi, rimasti fino ad allora lettera morta
10 In realtà, invece che tuareg bisognerebbe definire Kel Tamasheq, coloro che parlano tamasheq, questi berberi discendenti dagli antichi garamanti. Il termine tuareg significa” abbandonati da dio”, ed essi lo rifiutano. Dal momento dell’indipendenza africana hanno invano reclamato un loro Stato. La risposta degli Stati in cui si trovarono divisi fu invece spingerli alla sedentarizzazione e all’integrazione. Anche gli aiuti internazionali – quando la siccità degli anni settanta nel Sahel li spinse più a nord verso Libia e Algeria – vennero distribuiti in modo clientelare e usati per costringerli alla sedentarizzazione. Gheddafi ne sfruttò la miseria per arruolarli nell’avventura bellica in Ciad, l’Algeria nella seconda metà degli anni ottanta ne espulse brutalmente 20-30.000 verso Mali e Niger. Fu in questo clima che scoppiarono le rivolte degli anni novanta. Intanto, il risultato di tutto ciò fu la distruzione dei loro tradizionali legami di solidarietà e la diffusione dell’individualismo con l’adattamento a nuove opportunità come il turismo. La loro società nomade tradizionale è ormai solo un mito dell’Occidente. Cfr.H. Claudot-Hawad e Hawad: Il paese dilaniato, ed. L’Harmattan Italia; Anna Jannello: La musica del deserto, ed. Terre di mezzo; Mano Dayak: op. cit.
11 Ma lo stesso si può dire di tutti i confini mediorientali, fino alla linea di divisione tra Afghanistan e Pakistan e fra Pakistan e India
12 www.andreasemplici.blogspot.it
13M. Aime, op. cit.
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La frontiera si imprime sui corpi,
si sposta con le persone che la attraversano,,
che sia il deserto, la Libia, il Mediterraneo,
Lampedusa, il confine turco-siriano o Ventimiglia”,
(MH, Mediterranean Hope)
All’ambulatorio che vedevo sempre più come un termometro degli eventi del mondo, cominciarono ad arrivare giovani del Mali – altissimi, prestanti e poco disposti a sorridere o comunicare1 – che avevano lavorato in Libia fino allo scoppio della guerra. Uno in particolare – che portava un orecchino e una maglia azzurra simile a quella della nazionale di calcio italiana – mi fece pensare ai famosi mercenari che si diceva Gheddafi avesse assoldato. Cominciai a rivolgergli qualche domanda assai neutra, giustificandomi per questo con un timido “sono una scrittrice”. “Che lingua parla?”, gli chiesi innanzitutto nel mio goffo francese. A quelle parole sorrise, un largo sorriso che però non raggiungeva gli occhi, per la prima volta da quando era entrato. Disse di parlare bambara – la lingua dell’etnia bambara, quattro milioni di persone, che in Mali è la lingua franca – ma di essere di etnia peul, una etnia antichissima2. Aggiunse che in Mali tutte le etnie sono uguali, perché “c’è democrazia”. Poi però, mostrandomi una mano deformata priva di mignolo, bisbigliò: “Non posso tornare in Mali, ho avuto un incidente” e, in un sussurro: “In moto”. Poi, contraddicendo l’affermazione precedente e scuotendo la testa disse, come parlando a se stesso: “In Mali c’è la rivoluzione”. A quel punto, più ardita, gli chiesi dei tuareg e nominai l’Azawad. “I tuareg fanno la rivoluzione, sono razzisti. Gheddafi sosteneva questa loro rivoluzione. Ma in Libia si stava bene, c’era lavoro, si potevano mandare soldi a casa, in Mali. Non osai chiedergli che lavoro avesse fatto in Libia. Fattosi più loquace, raccontò di essere arrivato in barca a Lampedusa con degli amici. “Ci hanno identificati e noi del Mali abbiamo fatto domanda per ottenere l’asilo politico”. Era alloggiato per il momento in uno dei dormitori della Caritas.
In quel periodo la più giovane delle mie figlie stava facendo un’intensa esperienza di volontariato insegnando italiano a dei giovani immigrati in una struttura gestita da un’associazione a cui erano affidati. Le ho chiesto di raccontarmi la sua esperienza e lascio dunque a lei la parola.
“È iniziato tutto in modo raffazzonato, in una specie di vuoto che si era creato tra due associazioni legate al dormitorio comunale di Via Campofiore dove erano stati collocati i ragazzi: un’associazione di sostegno ai tossicodipendenti che pure dormivano lì, e un’associazione invece nata per aiutare proprio i rifugiati in attesa di asilo. Erano ospitati lì circa una ventina di persone, una decina di africani, in gran parte musulmani – Djanko, Keita, Kissima, Assumana – di diversi paesi, ma la maggior parte provenienti dal Mali e Gambia, uno della Guinea Bissau e una decina di bengalesi, molti dei quali di Dakha, tutti musulmani a parte un indù, Kamol. Di lì a poco un gruppo di ragazzi ai cui era stato riconosciuto l’asilo in prima turnata – ma in base a criteri abbastanza aleatori, a quanto ne ho capito – è stato spostato in un altro dormitorio. Nei mesi, poi, sono stati mandati allo stesso dormitorio anche tre ragazzi nigeriani, cristiani di varie confessioni.
Fin dall’inizio si sono creati due gruppi distinti: ovviamente tutti i bengalesi – dei quali molti si conoscevano già – stavano tra di loro, mentre una sorta di solidarietà africana si è creata tra gli altri, anche se venivano da paesi differenti del continente. In realtà li accomunava tutti il fatto di essere arrivati insieme, se non sulla stessa barca […].
Il mio ruolo era riempire un poco le ore vuote che trascorrevano lì, in un ambiente – il dormitorio Campofiore – davvero un po’ degradato e desolante: muri scrostati, aria viziata, senso di abbandono. La responsabile dell’associazione dei tossici ed alcolizzati mi aveva fatto capire che tra i due gruppi – cioè tra rifugiati stranieri ed emarginati italiani – non correva buon sangue. […]. Il mio progetto era di dar loro un’infarinatura di italiano. Ho procurato a mie spese quaderni, penne, una lavagna e dei libretti per bambini, assieme a pile di fotocopie da libri specifici. Mi sono subito resa conto, però, che era un’impresa difficile. C’erano enormi differenze tra i miei “allievi”. Il primo impatto mi ha colpita molto: ho detto a ciascuno di scrivere il proprio nome su un foglietto, e mi sono scontrata per la prima volta con l’analfabetismo. […]
Ho cercato così di differenziare le lezioni, aiutando chi non sapeva scrivere con dizionari illustrati ed esercizi per bambini. Agli altri cercavo di insegnare parole, qualche regola grammaticale per usare i tempi, i possessivi, frasi utili. Era però molto difficile gestire l’ordine e gli orari. Molti di loro non erano puntuali, altri non venivano regolarmente. C’era invece chi era molto diligente e si applicava con dedizione. Kamol, il ragazzo indù, era sempre puntualissimo e molto rispettoso. Alla fine gli ho regalato un libro perchè facesse pratica da solo. Tutti mi ringraziavano molto, quando andavo via, e insistevano perché mi fermassi a cenare con loro. Al mio rifiuto – dicevo sempre che per me era troppo presto – insistevano per regalarmi una mela o una banana. […] Quanto agli analfabeti bengalesi, di cui due erano già padri di famiglia, mi sembravano meno vulnerabili – almeno apparentemente – perché il loro gruppo era più coeso, e avevo l’impressione che usciti dal dormitorio avrebbero trovato dei contatti – conoscenti o lontani parenti – che li avrebbero aiutati ad integrarsi. […]
Il ragazzo della Guinea Bissau, con una camicia candida e sempre uno walkman alle orecchie, era sempre sorridente e scherzoso. Pure lui era analfabeta, e ho scoperto che in patria aveva perso tutti i familiari: era solo al mondo. […]”.
Un giorno, all’ambulatorio, io invece ho conosciuto Binta. Giovanissima, timida, molto graziosa, accettò di rispondere alle mie domande in sala d’aspetto dell’ambulatorio. Era l’ultima paziente della mattina, l’occasione era favorevole perché eravamo rimaste sole nella stanza. Parlava un ottimo francese. Aveva frequentato i primi due anni della facoltà di Scienze politiche ed economiche a Bamako. Avrebbe voluto diventare avvocato. Orfana di madre in tenera età, alla recente morte di suo padre la matrigna voleva costringerla a diventare la quarta moglie di quello che Binta definì “un vecchio”. “Non volevo, avevo un compagno di studi a cui volevo bene”, sussurra. Sembra la storia di Cenerentola. Parlando, non mi guardava mai negli occhi, e ripeteva spesso che aveva paura. Con l’aiuto di amici che avevano raccolto dei soldi per lei è scappata. Burkina Faso, poi Niger. “Agadez?” incalzai. Annuì. “Con i trafficanti?”: annuì ancora. In Libia aveva viaggiato sui mezzi pubblici, era pericoloso, aveva paura, sempre. Mi chiedevo cosa avesse vissuto questa bella ragazza in quel pellegrinaggio di violenza e miseria, sotto la “protezione” mercenaria dei passatori. E il mare? “Tanta, tanta paura”, sussurrò Binta. Arrivata in Sicilia, le vennero prese le impronte ma poi fu libera di andarsene. Aveva trovato due compagne di viaggio e insieme raggiunsero Napoli, poi Roma, quindi Binta aveva proseguito per Verona, dove si era rivolta alla Questura e aveva chiesto l’asilo.
“Come hai trovato le persone che qui si sono occupate di te?”, le chiesi. “Dure, specie quelle che mi hanno dato i vestiti. Sono arrivata lo scorso autunno, vestita con vestiti tradizionali del Mali, leggeri. C’era freddo qui”. Ora in attesa che sia esaminata la sua richiesta di asilo la cooperativa che l’ha in carico l’ha collocata in un appartamento in periferia con altre tre ragazze rifugiate. Ne è molto contenta. La seconda volta che venne all’ambulatorio la invitai a mangiare una pizza con me. Ne mangiò metà appena, ma cominciò almeno a guardarmi negli occhi. Guidata dalle mie domande, completò il racconto della sua fuga da Bamako. Il ragazzo a cui voleva bene l’aveva aiutata a organizzare in segreto la sua partenza. Era cristiano, e la sua matrigna non le avrebbe mai permesso di sposarlo. Le chiesi quante lingue parlasse oltre al francese: “Il bambara”, mi rispose, “è la mia lingua. Mio padre era un bambara di Timbuktu, e poi il peul, perché mia madre era una peul”.
Mi sorprese che, nel mese trascorso dal nostro primo incontro, avesse imparato a capire e parlare l’italiano così bene, solo frequentando un corso di lingua di due ore per quattro giorni settimanali. Mi disse che voleva prendere un diploma per poter lavorare. Il suo certificato di maturità era a casa della matrigna, e mi resi conto che non avrebbe mai accettato di chiederglielo, come le avevo suggerito. Le dissi che mi sarei informata su quali certificati dovesse avere per iscriversi a una scuola italiana. Prima di fuggire era riuscita almeno a prendere il proprio certificato di nascita. Parlammo dell’islam, e a proposito dei terroristi disse che quelli non sono veri musulmani, e che è tutta una questione politica. “Chi ha iniziato tutto questo?”, incalzai. Mi rispose: “Les Etats Unis”. Parlando con Binta compresi che per lei era molto importante tornare a scuola, e il primo passo era ottenere un diploma di scuola media. Così, quando in un giorno di pioggia primaverile siamo uscite dalla scuola dove avevamo fatto l’iscrizione al corso per la licenza, e l’ho vista fotografare la scritta “Scuola media statale Dante Alighieri”, ho provato una forte commozione, che ho nascosto chiedendole: “Sai chi era Dante?”. E’ ben vero che l’istinto dell’insegnante non si spegne mai.
Pensavo a Bamako, salito alla ribalta nel 2006 quando vi fu tenuto un Forum sociale che fece nascere molte speranze – ormai svanite – riunendo persone, non governi, anche se purtroppo i media occidentali non lo coprirono quasi per niente. […]3 In quei giorni fervidi di speranze era diventata famosa in Europa anche l’attivista e autrice maliana Aminata Dramane Traoré che, coordinatrice del programma di sviluppo ONU, criticava la globalizzazione e le politiche economiche dei paesi sviluppati del “primo” mondo, soprattutto i sussidi ai loro produttori di cotone che svantaggiavano i paesi produttori dell’Africa occidentale sui mercati occidentali. Sulle dune di Essakane, un’oasi a nord di Timbuctu, si teneva già da cinque anni un celebre festival dove la musica maliana incontrava la poesia tamasheq dei tuareg, animata da una struggente vena di nostalgia per la vita libera nel deserto, e il gruppo più rappresentativo erano i Tinariwen. Si dice che il padre del fondatore del gruppo, Ibrahim, fosse fuggito in Algeria portandolo sulle spalle, prima di essere ucciso dai soldati maliani nel 1963, al tempo della prima ribellione dei tuareg4. Dove è finita quella musica, e dove le speranze del Mali di allora? Ora l’immensa zona sahelo-sahariana è sempre più preclusa ai viaggiatori, diventata una sorta di incubo come nella distopia di Barzakh, il libro dello scrittore mauritano Moussa Ould Ebnou5, che racconta la storia di un uomo che, rivivendo nel futuro, trova un Sahara disabitato e diventato la discarica del mondo. Pensavo alle preziose biblioteche del deserto: quelle di Timbuktu nel Mali e quelle della Mauritania […].
La Mauritania è stata per molti secoli un centro d’irradiamento culturale in cui l’acquisizione e la diffusione del sapere dominavano la vita degli uomini e costituivano un’attività di fondamentale importanza. L’antichissima oasi di Chinguetti – famosa per la sua antica biblioteca, la più nota ma non l’unica nel cuore del Sahara occidentale6 – nacque inizialmente per servire le rotte carovaniere legate al grande commercio trans-sahariano, e come le altre oasi su questa via ben presto divenne un centro d’insegnamento religioso, con moschee e scuole coraniche la cui fama si diffuse fino in Arabia, lungo la via del pellegrinaggio alla Mecca. Fu in questo fervido clima culturale che si formarono appunto le numerose “biblioteche del deserto”, le cui migliaia di manoscritti riguardanti vari campi del pensiero umano, dalla religione alla storia, dalla filosofia alla matematica e alla medicina, richiamarono intellettuali e studiosi da tutto il mondo arabo per secoli, oltre ad alimentare la nascita di un’intensa attività editoriale. La cultura non era un patrimonio elitario ma informava la società, tanto che intorno al XVI secolo in ogni casa di queste città si trovava almeno un erudito.
A ricordare quei tempi, quasi in ogni zaouia dei sufi, presso gli accampamenti e le vecchie famiglie tribali, nelle biblioteche locali o nelle rare biblioteche di Stato – in Mauritania, Marocco, Mali, Niger e Algeria – sono tutt’oggi conservati, mentre le dune di sabbia avanzano implacabili, centinaia di migliaia di manoscritti antichi depositari della memoria storica dei popoli sahariani e saheliani. L’intellettuale nigerino Boubou Hama diceva che “le idee viaggiano come gli uomini. Intere biblioteche che noi credevamo per sempre disperse, seguirono invece per generazioni i nomadi attraverso il deserto e le savane, e oggi, fortunatamente, le stiamo ritrovando”. Tuttavia, ai predoni – locali e occidentali – non interessano le biblioteche del deserto ma beni molto più concreti economicamente. Eppure questi manoscritti che il clima secco del Sahara ha conservato per secoli hanno molto da insegnare: ricordano che le civiltà finiscono, che nessuna dura per sempre, e ricordano anche che l’islam – diversamente da quello che i media vogliono comunicare – è stato nei secoli una splendida forza fertile e civilizzante, che si è sempre arricchita negli incontri. Il cammino della storia ha fatto poi emergere la civiltà occidentale, che ha imposto con violenza il proprio modello distruggendo molti altri modi di vita, disegnando confini, fermando i nomadi, ipostatizzando l’economia di rapina. Anche questo modello, però, che è fiorito solo per un attimo, se consideriamo i tempi dell’universo, è agli sgoccioli, insostenibile. E la ruota gira implacabile.
Nuovamente, nel Mali c’è uno stato di guerra, che si collega – nel solito effetto boomerang prevedibile da tutti ormai, ma all’apparenza non da chi ha interessi da sostenere con le armi – con la destabilizzazione violenta della Libia. […]
Ho incontrato H. Maiga all’ambulatorio: pelle scurissima e un largo sorriso che metteva in risalto una candida dentatura in cui però il dentista trovò poi, con mia sorpresa, numerose carie. Cominciammo una sorta di dialogo fra sordi perché sosteneva che H. era il suo nome e Maiga il cognome, cognome tipico di Timbuktu, il suo luogo di provenienza. “Ma allora Maiga nella scheda dovrebbe precedere il nome”, ribattevo io. Rideva e scuoteva la testa, e alla fine mi mostrò il suo documento di richiedente asilo politico, dove il nome precedeva il cognome. Era evidente che anche i redattori del documento avevano fatto confusione: succede spesso dalle nostre parti, con nomi stranieri e inconsueti. H. mi raccontò che a Timbuktu c’è oggi il caos, “tra jihadisti, qaedisti e tuareg. E tutto è cominciato con la distruzione della Libia, le armi vengono da lì”. Nel corso del successivo appuntamento mi disse che il cognome Maiga indica i songhai di Timbuktu7 eredi del grande impero che si era formato intorno al corso del Niger, in posizione strategica fra l’Africa nera e quella araba. Islamizzato dall’XI secolo, l’impero fu distrutto a fine cinquecento da un esercito della dinastia marocchina dei sadiani che, guidato da un rinnegato spagnolo, giunse nelle terre dei songhai per impadronirsi dei giacimenti d’oro e dei ricchissimi mercati del sale e degli schiavi della regione, ed ebbe la meglio grazie all’uso delle armi da fuoco. Parlammo ancora dei “terroristi” che oggi si dividono Timbuktu, del suo passaggio dalla Libia devastata e del suo viaggio attraverso il Mediterraneo: con un ampio sorriso – o un ghigno sarcastico? – e scuotendo la testa esclamò: C’est la mort!”, e non compresi a quale di questi scenari si riferisse. Forse a tutti e tre. […]
L’attuale Mali fece un tempo parte di tre imperi dell’Africa occidentale che controllavano il traffico trans-sahariano8. Nella sua epoca d’oro, il XIV secolo, vi fiorirono la matematica, l’astronomia, l’arte e la letteratura. Alla fine dell’Ottocento, durante la corsa europea all’Africa, la Francia prese il controllo del Mali, chiamandolo Sudan Francese. All’epoca il grande campione della resistenza tuareg ai francesi nell’Air fu il mitico Kaossen che, preveggente, aveva detto al suo popolo: “Voi non avete alleati né tra i musulmani né tra gli infedeli e non ne avrete mai. Non ci rimane che andar d’accordo tra noi e combattere da soli e per noi stessi”. Nel 1918 Kaossen, in fuga dai francesi attraverso il deserto libico, cadde nelle mani dei turchi che in passato l’avevano aiutato. Accusato di tradimento, venne impiccato e i suoi compagni furono perlopiù massacrati dai turchi o sottomessi dai francesi9. I confini coloniali sono assurdi, disegnati in funzione delle risorse che si volevano sfruttare. Misero insieme i tuareg, i mitici “uomini blu” del nord, con i popoli neri del sud, e furono mantenuti anche dopo l’indipendenza del Mali nel 1960 10. Anche dopo la divisione da parte dei francesi dell’area sahelo-sahariana, tuttavia, i tuareg – tradizionalmente nomadi e pastori – potevano tranquillamente attraversarli, ma con l’indipendenza dei nuovi Stati come l’Algeria, il Mali, il Niger, vennero fermati dai loro gendarmi che controllavano le carovane dei nomadi esigendo da loro, che non sapevano nemmeno leggere, passaporti e visti. “Chi ha tracciato, con righelli e coordinate astronomiche, i confini africani11 ha acceso la miccia di decenni di ingiustizie. Quel geografo stolto e avido si è poi seduto su una poltrona di velluto rosso in qualche capitale europea e ha atteso l’esplosione dei paesi che aveva appena disegnato sul suo personale planisfero”12.
Scrive Marco Aime19: “Le ribellioni dei tuareg sono iniziate subito dopo l’indipendenza. Già nel 1963 il regime di Keita inviò le truppe nel nord del paese per controllare le popolazioni locali. Il “controllo” venne fatto con mano pesante, massacri di persone e bestiame e numerosi villaggi incendiati. Le grandi siccità degli anni settanta acuirono poi la crisi spingendo i tuareg verso sud, dove si scontrarono con le popolazioni contadine locali, le cui colture non potevano sostenere le grandi mandrie degli uomini del deserto. Scontri e battaglie, acuiti dalle restrizioni sulla spesa pubblica imposte dal Fondo monetario, continuarono fino ai primi anni novanta, poi la pace fu siglata con il governo, che fece la promessa di maggiori incentivi per le regioni del nord. Oggi i tuareg non lottano per un’indipendenza dallo Stato spinti soltanto da un anelito di libertà e identità, come spesso ci piace immaginare, ma piuttosto per raggiungere una pari opportunità di miglioramento economico e sociale. Il nord è infatti la regione più povera e arretrata del paese, ignorata per decenni dai governanti maliani: niente scuole, niente ospedali, nessun piano di sviluppo, solo un forte controllo militare. Sono queste condizioni che hanno fatto nascere le velleità di indipendenza, non un presunto spirito etnico dei nomadi”. Dopo essersi alleato con i movimenti jihadisti che hanno preso Timbuctu nel 2012, il movimento tuareg MNLA è passato a sostenere l’operazione francese “Serval”. Ora però il governo del Mali dovrebbe finalmente considerare lo sviluppo dell’Azawad e quantomeno la sua autonomia da Bamako.
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Note
1 Quando africani e asiatici che lavoravano in Libia sotto il regime di Gheddafi hanno cominciato ad approdare in Italia, la prima ondata, composta soprattutto da giovani tunisini, ha preso la strada della Francia grazie al permesso umanitario voluto dall’allora ministro Roberto Maroni. Ma quando Parigi ha chiuso le frontiere, lo stesso Maroni ha varato una strategia federalista: ogni regione ha dovuto accogliere un numero di profughi proporzionale ai suoi abitanti. A coordinare tutto è stata la Protezione civile, che da Roma ha incaricato le prefetture locali o gli assessorati regionali come responsabili del piano di accoglienza. Nella fretta, però, non ci sono state regole per stabilire chi potesse ospitare i profughi e come dovessero essere trattati. L’assistenza si è trasformata così in un grosso affare per molti italiani disonesti: bastava una sola telefonata per venire accreditati come “struttura d’accoglienza” e accaparrarsi 1.200 euro al mese per ogni persona: una vera manna per centinaia di alberghi vuoti, ex agriturismi, case-vacanze disabitate, residence di periferia e colonie fatiscenti
2 I peul o fulani erano tradizionalmente pastori della regione sahelo-sahariana, che si sono in parte sedentarizzati e in maggioranza islamizzati e vivono in una quindicina di paesi dell’Africa occidentale. Costituiscono uno dei più grandi gruppi etnolinguistici africani con 40 milioni di persone, ma sono uno dei popoli più ampiamenti sparsi e culturalmente diversi tra i popoli dell’Africa. Circa 13 milioni sono ancora nomadi, costituendo il più grande gruppo nomadico al mondo. In Mali si parlano dodici lingue corrispondenti ad altrettante etnie, che hanno sempre convissuto pacificamente)
3 Cfr. Marco Boccitto: “Bamako, il Forum che non c’è”, in: Il manifesto, 22-1-2006. Scrive ancora Boccitto: “Nella capitale maliana non s’è visto Bob Geldof né sono previsti concertoni in stile Live, quindi chissenefrega. Assenti Bono, Blair e gli amici di Washington, un po’ repubblicani ma sinceri amanti del “continente nero”. In Mauritania, oltre che a Chinguetti, si conservano antiche biblioteche a Ouadane, Oualata, Tichitt, in Niger ad Agadez e a Niamey, in Marocco a Tamgrud e Smara, in Algeria a Béjaia. A Béjaia venne a studiare Fibonacci, il matematico di Pisa del XII-XIII secolo, grazie in parte anche al quale si diffusero poi in Europa, proprio partendo dall’Università di Béjaia, i numeri arabi. Lo studioso veronese Attilio Gaudio, etnologo, antropologo, giornalista e famoso africanista morto per un incidente nel 2002, ha dedicato gli ultimi anni della sua intensa vita a far conoscere al mondo intero questo inedito patrimonio culturale sahariano)
4 La prima formazione dei Tinariwen avvenne nei campi in Libia dove Gheddafi addestrava i tuareg
5 Cfr. M. O. Ebnou: Barzakh, ed. L’Harmattan
6 In Mauritania, oltre che a Chinguetti, si conservano antiche biblioteche a Ouadane, Oualata, Tichitt, in Niger ad Agadez e a Niamey, in Marocco a Tamgrud e Smara, in Algeria a Béjaia. A Béjaia venne a studiare Fibonacci, il matematico di Pisa del XII-XIII secolo, grazie in parte anche al quale si diffusero poi in Europa, proprio partendo dall’Università di Béjaia, i numeri arabi. Lo studioso veronese Attilio Gaudio, etnologo, antropologo, giornalista e famoso africanista morto per un incidente nel 2002, ha dedicato gli ultimi anni della sua intensa vita a far conoscere al mondo intero questo inedito patrimonio culturale sahariano
7 Disse anche che a Timbuktu oltre ai songhai ci sono i peul e i tuareg, e che questi ultimi “molto, molto tempo fa” erano anch’essi songhai. Non ho verificato la veridicità di questa affermazione
8 L’impero del Ghana, l’impero del Mali e l’impero songhai
9 Cfr. Mano Dayak: Sono nato con la sabbia negli occhi, ed. Aviani. Era il periodo in cui, nel corso della prima guerra mondiale, nel Nordafrica turchi e tedeschi stavano passando all’offensiva. Banditi armati collegati con i senussi, che odiavano i francesi, ne approfittarono per raddoppiare le incursioni nel deserto e assassinarono nel suo eremo a Tamanrasset padre Charles de Foucault, ritenuto un agente francese al soldo del generale Laperrine. La colpa del crimine ricadde sui tuareg, di cui invece de Foucault era amico e della cui cultura si era occupato. Mano Dayak fu una carismatica personalità tuareg, colto e intraprendente, politicamente impegnato per difendere il suo popolo nonché uno degli artefici della pace nel Niger. La sua vita si concluse in giovane età nel 1995 per un incidente aereo molto sospetto: l’esplosione al decollo del Cessna su cui viaggiava mentre si stava recando dal primo ministro nigerino per convincerlo ad applicare gli accordi, rimasti fino ad allora lettera morta
10 In realtà, invece che tuareg bisognerebbe definire Kel Tamasheq, coloro che parlano tamasheq, questi berberi discendenti dagli antichi garamanti. Il termine tuareg significa” abbandonati da dio”, ed essi lo rifiutano. Dal momento dell’indipendenza africana hanno invano reclamato un loro Stato. La risposta degli Stati in cui si trovarono divisi fu invece spingerli alla sedentarizzazione e all’integrazione. Anche gli aiuti internazionali – quando la siccità degli anni settanta nel Sahel li spinse più a nord verso Libia e Algeria – vennero distribuiti in modo clientelare e usati per costringerli alla sedentarizzazione. Gheddafi ne sfruttò la miseria per arruolarli nell’avventura bellica in Ciad, l’Algeria nella seconda metà degli anni ottanta ne espulse brutalmente 20-30.000 verso Mali e Niger. Fu in questo clima che scoppiarono le rivolte degli anni novanta. Intanto, il risultato di tutto ciò fu la distruzione dei loro tradizionali legami di solidarietà e la diffusione dell’individualismo con l’adattamento a nuove opportunità come il turismo. La loro società nomade tradizionale è ormai solo un mito dell’Occidente. Cfr.H. Claudot-Hawad e Hawad: Il paese dilaniato, ed. L’Harmattan Italia; Anna Jannello: La musica del deserto, ed. Terre di mezzo; Mano Dayak: op. cit.
11 Ma lo stesso si può dire di tutti i confini mediorientali, fino alla linea di divisione tra Afghanistan e Pakistan e fra Pakistan e India
12 www.andreasemplici.blogspot.it
13M. Aime, op. cit.