Sommario di “Ponti sull’Egeo”
T R A C I A
M A C E D O N I A
A N A T O L I A
RITORNO IN RUMELIA
Non riesco a distinguere a quale etnia appartengano i gruppi di uomini seduti nei caffè: greci, turchi o pomachi che siano, i loro vestiti occidentali sono una divisa che uniforma e omologa, e mi dispiace che non sia martedì quando – mi si dice - un mercato ‘orientale’ richiama i contadini dei dintorni e si moltiplicano gli incontri tra diverse etnie la cui convivenza – nella vita quotidiana - è in genere assai tranquilla. Come sempre, è la politica a creare divisioni, magari sfruttando tensioni che esistono allo stato latente. Nel 1990 una folla greca fracassò le vetrine di negozi appartenenti a musulmani saccheggiandoli e solo pochi ebbero il coraggio – e la fiducia – di chiedere ale autorità competenti un risarcimento dei danni subiti. Lo stato greco riconosce ufficialmente solo una “minoranza musulmana” senza fare distinzione tra turchi, rom e pomachi. Questi ultimi, 30.000 in Grecia, sono stati quindi trattati dalle autorità come turcofoni, benchè la Convenzione di Losanna garantisse alle minoranze l’insegnamento nella loro lingua. Bulgaria, Grecia e Turchia aspirano tutte ad assimilarli e per rivendicarne l’appartenenza alle rispettive nazioni forniscono ciascuna una “storia nazionale” diversa. I greci usano ricerche sui gruppi sanguigni per provare che i pomachi sono più simili a loro che ai turchi; per i bulgari la lingua di ceppo slavo che i pomachi parlano fa fede della loro appartenza, mentre i turchi - basandosi sulla comune adesione all’islam - sostengono che essi, discendendo da tribù turche stanziate nei Balcani ancora prima della conquista ottomana – peceneghi, avari, kuman, unni, kazari –, sarebbero addirittura il più antico popolo turco giunto in Europa. In tal modo la Turchia può aumentare il proprio computo dei “turchi di Grecia”. I pomachi della Tracia greca accettano in genere questa versione turca: del resto, la loro lingua si è ormai mescolata con il greco e con il turco degli insegnamenti musulmani, mentre i capi della loro comunità fanno parte della leadership della minoranza turca.
Il reiterato rifiuto da parte greca di rispondere alle richieste dei pomachi ha portato però, come è naturale, alla radicalizzazione dei loro atteggiamenti. Dal 1953 al 1995, per paura di infiltrazioni di comunisti dal nord il governo di Atene proibì l’accesso alla regione abitata dai pomachi al confine con la Bulgaria, mentre una zona militare separava i pomachi dai turco-musulmani che abitavano il sud della Tracia occidentale. Ancora oggi la Grecia tenta di dissociare i pomachi dai turchi, dando a coloro che cooperano con la politica governativa incentivi come l’accesso ad una educazione di migliore livello e a più alti ranghi nel servizio militare. Anche la minoranza turca da parte sua lamenta di essere oggetto di leggi discriminatorie, contrariamente al dettato della Convenzione di Losanna: fra l’altro, i musulmani non possono comperare case o terreni e possono venderli solo a greci, non possono ricostruire le proprie case e moschee o intraprendere nuove attività commerciali. Dagli anni sessanta gli aspiranti insegnanti nelle scuole turche della Tracia occidentale devono frequentare una speciale accademia a Salonicco che – dicono i suoi detrattori – si basa su un curriculum datato, del tutto scollegato dalla moderna cultura turca, ma in linea con l’intento di ellenizzare le minoranze. L’indicazione stessa dell’affiliazione religiosa sulla carta d’identità greca è stata a lungo una fonte di discriminazione. Nel 1977 i nomi di luogo vennero cambiati sostituendo la forma greca a quella turca, che da allora è proibito usare in documenti ufficiali sotto pena di multe o anche di detenzione, così come è proibito usare l’aggettivo “turco” per definire scuole, associazioni e gruppi turcofoni. In sostanza la Grecia nega la presenza sul suo territorio di una comunità “turca” - termine che ha una connotazione nazionale perché definisce un cittadino della Turchia - e chiama la propria minoranza turcofona turkoghenis, cioè di discendenza, cultura e lingua turca. Mi rendo conto ancora una volta del potenziale esplosivo che possono avere le parole in un contesto nazionalista.
Dopo lo sbarco dell’esercito turco nel luglio 1974 e, il mese seguente, la vera e propria invasione con cui le forze militari di Ankara occuparono il 30% dell’isola - inclusa la fertile valle centrale della Mesaoria da cui espulsero circa 200.000 greco-ciprioti - e dopo la caduta della dittatura in Grecia, nella letteratura greca vi fu una ripresa di romanzi e racconti sulla catastrofe dell’Asia Minore scritti perlopiù da figli o nipoti di profughi del 1923 che nella cacciata dei greco-ciprioti dalla parte settentrionale di Cipro vedevano riflessa l’espulsione dall’Anatolia dei romei. Ed è quasi esclusivamente in queste opere più recenti che capita a volte di trovare “riferimenti ai turchi come agli eterni nemici dei greci” (9), mentre anche a Cipro la vita quotidiana racconta un’altra storia. Negli ultimi anni, con l’incoraggiamento dell’Unione Europea e delle Nazioni Unite,vi si moltiplicano ONG e gruppi misti che organizzano attività – concerti, festival della gioventù, mostre d’arte - che coinvolgono ciprioti delle due repubbliche. Quanto ai lavoratori turco-ciprioti che ogni giorno, passando il confine al Ledra Palace, fanno la fila per ottenere il visto che permette loro di entrare a lavorare nei cantieri della Repubblica greco-cipriota, convivono senza problemi con i colleghi di etnia greca, mentre i rispettivi sindacati collaborano attivamente contro il lavoro nero e cresce alla base la consapevolezza che una riunificazione sia inevitabile se davvero si vuole risolvere l’ormai annosa questione cipriota. Un altro passo verso la distensione è stato rendere transitabili i confini chiusi fino a tempi recenti. I turco-ciprioti e i greco-ciprioti possono così spostarsi per fare spese o pranzare nel sud o nel nord di Cipro, a seconda del caso. Ma la linea che divide l’isola di Afrodite e che - sotto forma di case sventrate, assi inchiodate, filo spinato e posti di blocco militari – mi sono trovata più volte di fronte, a fermare la mia passeggiata in un soleggiato giorno di Natale, esiste ancora ed è una vergognosa cicatrice, il segno di un imperdonabile fallimento le cui responsabilità non sono certo unilaterali come vuol far credere certa politica di parte, dimenticando di ricordare burattinai fra i quali si contano i famigerati Nixon e Kissinger. Ma, si sa, la politica pilota e usa la memoria collettiva in funzione di quello che vuole far dimenticare.
A Nicosia cerco vie alternative che non cozzino contro la cosiddetta Linea Verde che, stabilita nel 1983 (10), separa la Repubblica greco-cipriota da quella turco-cipriota, ufficialmente esistente solo per la Turchia. Linea verde: quali nomi soavi i politici usano per mascherare situazioni inqualificabili! Osservo con attenzione la mappa del centro antico della città: le mura costruite dagli invasori veneziani formano una sorta di stella leggiadra, i cui vertici sono gli undici bastioni difensivi. Sovrapponendole una mappa odierna, vi trovo una punteggiata linea ondulata che, tagliando la stella, divide Nicosia in due parti: in quella superiore le strade portano i nomi di pascià o conquistatori turchi, come l’immancabile Atatürk o il conquistatore selgiuchide Alp Arslan, e le più famose chiese della città antica sono rimaste da questo lato e trasformate in moschee. Gli imprescindibili protagonisti della toponomastica nella parte inferiore della mappa sono – oltre ai mitici eroi della classicità come Alessandro, Eschilo, l’apostolo Barnaba e l’ultimo imperatore Costantino Paleologo – anche re Ottone, il bavarese che gli inglesi destinarono ad essere il primo re della nuova Grecia indipendente, e Trikoupis, il politico greco che, in auge negli ultimi decenni dell’Ottocento, sosteneva una riforma su linee occidentali. Quanti indizi su ciò che è stato sottolineato o rimosso può rivelare la semplice toponomastica di una città, strumento non secondario della propaganda di uno stato nazionale!
Mentre continuiamo il nostro percorso tra i campi di girasoli della torrida, assolata pianura della Tessaglia, un’indicazione stradale che indica “Kappadokiko” ci fa deviare su una strada diritta che sembra perdersi nella foschia dell’orizzonte campestre. L’inizio del paese è indicato da un grande cartello azzurro che porta scritto un enorme “Benvenuti” seguito da “Comune di Kappadokiko. Abitanti 651”. Il paese è formato da poche strade parallele che intersecano perpendicolarmente quella principale. Le case sono molto semplici e tutte uguali: dipinte di bianco, a un piano, con i tetti di tegole. Entro nel primo bar che trovo per porre agli avventori, tutti ovviamente di sesso maschile, quella che – dato il nome del paese – è proprio una domanda retorica. Rispondono come un sol uomo: “Sì, i nostri padri sono profughi della Cappadocia, venivano da Kaiseri, ma è il maestro Lazarus che sa tutto”. Seguendo le loro indicazioni procedo verso il bar principale, nella piazzetta alberata che è il centro di Kappadokiko, pensando al contrasto tra questo paesaggio piatto e agricolo, solitario nella pianura torrida, e la lontana città turca di Kaiseri bagnata di pioggia, come mi è apparsa nel mio recente viaggio autunnale, cupa con le sue mura, le moschee, i minareti di pietra nera e l’incombente profilo dell’antico vulcano all’orizzonte. Al bar mi dicono che Lazarus è appena andato via, ma un gentile omino si offre di andare a chiamarlo: inforcando la bicicletta si allontana tornando di lì a poco dopo per annunciare l’arrivo del maestro. No, nessun problema, ci rassicura: anche se è ora di pranzo, Lazarus è sempre felice di parlare della Cappadocia. Sediamo a un tavolino in ombra: a due passi da noi – dietro a una pianta di girasole delle dimensioni di un albero con un unico, enorme fiore – dritta nel suo nido in cima a un palo della luce una cicogna solitaria batte ritmicamente il becco. Per completare l’atmosfera surreale della scena, quasi ebbra per la calura chiedo all’omino: “Quando migrano le cicogne?” Risponde prontamente: “Il 15 agosto”, ma quando gli domando dove svernano, allarga le braccia e alza le spalle: “E’ un mistero!”
Nel frattempo è arrivato Lazarus che prende posto accanto a noi: magro e scattante, ha occhi vivacissimi e un sorriso luminoso. Porta un incongruo berretto a visiera e, sprizzando energia e vitalità da tutti i pori, comincia a parlare concedendomi pochissimo spazio per porgli delle domande. Arranco per seguire il suo velocissimo eloquio, poi – sopraffatta da Lazarus e dall’afa - rinuncio a prendere appunti e a comprendere ogni dettaglio, per riuscire a cogliere almeno il nocciolo del racconto. Nel 1924, quando i romei di Kaiseri e dei villaggi limitrofi giunsero in questi campi deserti a loro assegnati – nella provincia di Karditsa di cui Kappadokiko fa parte ne arrivarono più di centomila – furono dapprima sistemati in una tendopoli, e i greci dei circondario non accolsero certo a braccia aperte questa gente che parlava solo turco. Col tempo, si dissodarono i campi e furono costruite le case, ma non quelle che vediamo, racconta Lazarus: il primo nucleo di abitazioni venne infatti distrutto nel 1954 da un forte terremoto. Il nostro maestro, che dice di parlare bene il turco, è ritornato già tre volte in Cappadocia - organizza viaggi di discendenti di profughi nell’antica patria – e racconta che la sua famiglia viveva in pace con i turchi. Attorno a noi si è creato un cerchio di uomini che tentano di intervenire aggiungendo nuovi dettagli al racconto, ma Lazarus li zittisce autorevolmente dicendo che, per quanto straniera, io conosco benissimo la storia dello scambio. Della remota regione del Pindo chiamata Agrafa, le cui pendici di un pallido azzurro si intravedono all’orizzonte, Lazarus conferma quanto ho letto su questa zona, aggiungendo che da sempre su quelle alture hanno vissuto greci: “Per le sue spedizioni Alessandro arruolò uomini di queste parti, come del resto di tutta la Grecia, tranne gli spartani che non vollero seguirlo. I greci di Cappadocia erano dunque i discendenti dei soldati del macedone rimasti nel cuore dell’Anatolia. Ed ecco, siamo tornati indietro da dove eravami partiti!” esclama ridendo.
A riecheggiare l’orrore dei bambini romei soffocati perché le loro grida non rivelassero la presenza dei fuggiaschi dalla catastrofe del 1922, oggi si scoprono casi in cui i trafficanti di uomini costringono gli immigranti clandestini a dare il sonnifero per giorni ai loro bambini per farli tacere durante il viaggio. Sì, nonostante il preteso ‘progresso’ odierno, viviamo ancora – e senza nessuna giustificazione - in una civiltà di morte. Ognuno interpreta il proprio ruolo, ombra fra le ombre, nella rappresentazione del grande Karaghiozis che si ripete sempre con lo stesso canovaccio. Rabbrividisco, mentre porgo a un marinaio, che nemmeno lo guarda, il prezioso documento di identità che mi concede la libertà di andare ovunque nel mondo, come dovrebbe essere inalienabile diritto di ogni essere umano. Il ventre luminoso della nave inghiotte la mia auto e la notte inghiotte la nave.
T R A C I A
- Icone, carboni ardenti e Cabiri
- Sarakatsani, frontiere e luoghi dal doppio nome
- Molti nomi per lo stesso fiume
- Frontiere di guerra, frontiere di pace
- Trattati, Convenzioni e “nuove” patrie
M A C E D O N I A
- Vinti e vincitori: tirannicidi, missionari e pascià
- Quale Macedonia per la stella di Filippo?
- Salonicco o dei mondi perduti
- La Grande Guerra: massacri e menzogne
- San Demetrio e il grande incendio
- Las Encantadas e i consoli europei
- Stelle di David sulla moschea
- Aman aman, le navi di Salonicco
A N A T O L I A
- Storie di Costantinopoli-Istanbul
- Il sultano e il patriarca
- Tamama, la dispersa del Ponto
- Sulle tracce dei Selgiuchidi: guerra in Anatolia
- Il rogo di Smirne l’infedele
- I segreti della Cappadocia
- Penelope e Halidè
- Cipro: limoni amari
RITORNO IN RUMELIA
- Minareti sul lago
- I fantasmi di Kastorià
- Sui sentieri del Pindo
- Tessaglia: nostalgie di Cappadocia
- Storie di Karaghiozis
- Sul molo
Sarakatsani, frontiere e luoghi dal doppio nome- “Fà tesoro delle differenze. Se ognuno di noi
- diventa uguale all’altro, siamo destinati a perire”
- ( Moris Farhi, turco n.1935)
- “Noi andiamo ad Alexandroupoli” avevamo risposto a diversi connazionali che, all’aeroporto di Atene, ci chiedevano la nostra destinazione, e con una certa soddisfazione avevamo notato che nessuno di loro aveva un’idea precisa di dove si trovasse questa città. Ad Alexandroupoli, qualche ora dopo - mentre nell’aria frizzante di prima mattina profumata di fiori d’acacia sediamo a un tavolo davanti a un caffè e a una fragrante bugatsa appena sfornata, a due passi dalla nave che ci porterà a Samotracia - comincio a gustare l’esaltante sensazione della frontiera, una frontiera non solo spaziale – la Turchia è vicinissima – ma anche temporale. Ed è quest’ultima che mi intriga di più e che vado cercando nei luoghi più remoti della ‘mia’ Grecia, seguendo le tracce del passato prima che si perdano, prima che l’ultima casa antica sia abbattuta per fare posto a un albergone per turisti o l’ultima bottega a conduzione familiare venga spazzata via dall’ennesimo supermercato all’americana.
- E’ stato un contadino, sul piccolo autobus che dall’aeroporto Demokritos ci ha portato in città, ad innescare per me la macchina del tempo, precipitandomi dentro Roumeli (1), uno dei libri di Patrick Leigh Fermor, il mentore di molti dei miei percorsi greci. L’ometto aveva un aspetto dimesso, assolutamente ordinario, ma ad attirare la mia attenzione, come una calamita, fu l’impugnatura del bastone che teneva in mano: scolpita nel legno chiaro, vidi quella che era inequivocabilmente una testa di serpente. Ora, in attesa dell’imbarco, finalmente ho un po’ di tempo per aprire la mia copia di Roumeli - un po’ logora per le molte letture e sottolineature - intendendo offrirne la lettura alle mie figlie ancora insonnolite. Aprendo il libro alla prima pagina, trasalisco alle parole: “Alexandroupoli è una grande città”. Non ricordavo che il libro iniziasse proprio qui: del resto, quando lo lessi per la prima volta nemmeno io avevo un’idea precisa di dove si trovasse Alexandroupoli e non mi premurai di cercarne la collocazione sull’atlante. “All’apparenza però non c’è nulla di cittadino nei suoi abitanti, al contrario.” continua Fermor “I giovani di leva, mandati qui per il servizio militare, si sentono in esilio. Ma non è stato sempre così. Nei racconti del mio amico Yanni Peltekis, che da bambino visse qui sotto i turchi, Alexandroupoli sembra una città delle Mille e una notte, piena di avventure e mistero”.
- A dire il vero sembra che la storia sia solo transitata, senza fermarsi, da questo luogo che si trovava sul percorso dell’antica via romana Egnatia (2) e quando si costruì il collegamento ferroviario tra l’Europa centrale e l’Egeo, il primo treno a passare di qui nel 1897 fu il mitico Orient Express diretto a Costantinopoli. Sotto il dominio ottomano, la città era chiamata Dedeagaç - albero dell’eremita - a ricordare che era stata fondata nel XV secolo da un gruppo di dervisci musulmani. A sentire i greci però – che rifiutano di accettare una fondazione ottomana – sarebbero stati eremiti cristiani i colonizzatori di questo luogo, che divenne Alexandroupoli solo nel luglio 1920 quando, due mesi dopo la conquista greca, vi giunse in visita il giovane re Alessandro. Per spiegare che questo luogo era fino a tempi recenti selvaggio e disabitato, la guida della Tracia che ho appena comprato accenna ad un antico nome drys, quercia, ma non fa parola dell’etimologia del nome turco Dedeagaç, tirando invece in ballo un’improbabile etimologia greco-antica - Dede Agats - che significherebbe foresta sacra. E’ curioso come anche il linguaggio venga manipolato per fondare – o negare, a seconda del caso – i nazionalismi. Comunque sia, Dedeagaç-Alexandroupoli è una città recente il cui piano urbano fu tracciato nel 1878, all’indomani del Congresso di Berlino (3), dai russi sotto la supervisione del governatore greco.
- Contemplo il tranquillo porticciolo dalla rilassata aria provinciale, ignara che un altro intervento russo, della Russia di Putin questa volta, si sta concretizzando nelle alte sfere e sarà firmato fra un apio di mesi, nel settembre 2006, con Bulgaria e Grecia come partner. Secondo questo accordo Alexandroupoli diventerà il terminale di un oleodotto che viene pubblicizzato come un grande affare per le tre nazioni coinvolte: la Grecia, scriverà la stampa in toni trionfalistici, sta per compiere un “grande salto di qualità sotto il profilo geopolitico,diventando uno snodo cruciale per l’approvvigionamento di fonti energetiche per l’intera Europa”. Distogliendo lo sguardo dalla piccola nave “Nona Mairi” che, ignara delle future petroliere con cui le toccherà condividere queste acque, dondola nella rada tranquilla in attesa di partire per Samotracia, lancio uno sguardo in direzione del viale di acacie alle nostre spalle. Il traffico è scarso ma nessuno dei passanti sembra lontanamente assomigliare al sarakatsano che è il protagonista dei primi capitoli di Roumeli: sembra proprio che ancora una volta io sia arrivata troppo tardi.
Non riesco a distinguere a quale etnia appartengano i gruppi di uomini seduti nei caffè: greci, turchi o pomachi che siano, i loro vestiti occidentali sono una divisa che uniforma e omologa, e mi dispiace che non sia martedì quando – mi si dice - un mercato ‘orientale’ richiama i contadini dei dintorni e si moltiplicano gli incontri tra diverse etnie la cui convivenza – nella vita quotidiana - è in genere assai tranquilla. Come sempre, è la politica a creare divisioni, magari sfruttando tensioni che esistono allo stato latente. Nel 1990 una folla greca fracassò le vetrine di negozi appartenenti a musulmani saccheggiandoli e solo pochi ebbero il coraggio – e la fiducia – di chiedere ale autorità competenti un risarcimento dei danni subiti. Lo stato greco riconosce ufficialmente solo una “minoranza musulmana” senza fare distinzione tra turchi, rom e pomachi. Questi ultimi, 30.000 in Grecia, sono stati quindi trattati dalle autorità come turcofoni, benchè la Convenzione di Losanna garantisse alle minoranze l’insegnamento nella loro lingua. Bulgaria, Grecia e Turchia aspirano tutte ad assimilarli e per rivendicarne l’appartenenza alle rispettive nazioni forniscono ciascuna una “storia nazionale” diversa. I greci usano ricerche sui gruppi sanguigni per provare che i pomachi sono più simili a loro che ai turchi; per i bulgari la lingua di ceppo slavo che i pomachi parlano fa fede della loro appartenza, mentre i turchi - basandosi sulla comune adesione all’islam - sostengono che essi, discendendo da tribù turche stanziate nei Balcani ancora prima della conquista ottomana – peceneghi, avari, kuman, unni, kazari –, sarebbero addirittura il più antico popolo turco giunto in Europa. In tal modo la Turchia può aumentare il proprio computo dei “turchi di Grecia”. I pomachi della Tracia greca accettano in genere questa versione turca: del resto, la loro lingua si è ormai mescolata con il greco e con il turco degli insegnamenti musulmani, mentre i capi della loro comunità fanno parte della leadership della minoranza turca.
Il reiterato rifiuto da parte greca di rispondere alle richieste dei pomachi ha portato però, come è naturale, alla radicalizzazione dei loro atteggiamenti. Dal 1953 al 1995, per paura di infiltrazioni di comunisti dal nord il governo di Atene proibì l’accesso alla regione abitata dai pomachi al confine con la Bulgaria, mentre una zona militare separava i pomachi dai turco-musulmani che abitavano il sud della Tracia occidentale. Ancora oggi la Grecia tenta di dissociare i pomachi dai turchi, dando a coloro che cooperano con la politica governativa incentivi come l’accesso ad una educazione di migliore livello e a più alti ranghi nel servizio militare. Anche la minoranza turca da parte sua lamenta di essere oggetto di leggi discriminatorie, contrariamente al dettato della Convenzione di Losanna: fra l’altro, i musulmani non possono comperare case o terreni e possono venderli solo a greci, non possono ricostruire le proprie case e moschee o intraprendere nuove attività commerciali. Dagli anni sessanta gli aspiranti insegnanti nelle scuole turche della Tracia occidentale devono frequentare una speciale accademia a Salonicco che – dicono i suoi detrattori – si basa su un curriculum datato, del tutto scollegato dalla moderna cultura turca, ma in linea con l’intento di ellenizzare le minoranze. L’indicazione stessa dell’affiliazione religiosa sulla carta d’identità greca è stata a lungo una fonte di discriminazione. Nel 1977 i nomi di luogo vennero cambiati sostituendo la forma greca a quella turca, che da allora è proibito usare in documenti ufficiali sotto pena di multe o anche di detenzione, così come è proibito usare l’aggettivo “turco” per definire scuole, associazioni e gruppi turcofoni. In sostanza la Grecia nega la presenza sul suo territorio di una comunità “turca” - termine che ha una connotazione nazionale perché definisce un cittadino della Turchia - e chiama la propria minoranza turcofona turkoghenis, cioè di discendenza, cultura e lingua turca. Mi rendo conto ancora una volta del potenziale esplosivo che possono avere le parole in un contesto nazionalista.
Dopo lo sbarco dell’esercito turco nel luglio 1974 e, il mese seguente, la vera e propria invasione con cui le forze militari di Ankara occuparono il 30% dell’isola - inclusa la fertile valle centrale della Mesaoria da cui espulsero circa 200.000 greco-ciprioti - e dopo la caduta della dittatura in Grecia, nella letteratura greca vi fu una ripresa di romanzi e racconti sulla catastrofe dell’Asia Minore scritti perlopiù da figli o nipoti di profughi del 1923 che nella cacciata dei greco-ciprioti dalla parte settentrionale di Cipro vedevano riflessa l’espulsione dall’Anatolia dei romei. Ed è quasi esclusivamente in queste opere più recenti che capita a volte di trovare “riferimenti ai turchi come agli eterni nemici dei greci” (9), mentre anche a Cipro la vita quotidiana racconta un’altra storia. Negli ultimi anni, con l’incoraggiamento dell’Unione Europea e delle Nazioni Unite,vi si moltiplicano ONG e gruppi misti che organizzano attività – concerti, festival della gioventù, mostre d’arte - che coinvolgono ciprioti delle due repubbliche. Quanto ai lavoratori turco-ciprioti che ogni giorno, passando il confine al Ledra Palace, fanno la fila per ottenere il visto che permette loro di entrare a lavorare nei cantieri della Repubblica greco-cipriota, convivono senza problemi con i colleghi di etnia greca, mentre i rispettivi sindacati collaborano attivamente contro il lavoro nero e cresce alla base la consapevolezza che una riunificazione sia inevitabile se davvero si vuole risolvere l’ormai annosa questione cipriota. Un altro passo verso la distensione è stato rendere transitabili i confini chiusi fino a tempi recenti. I turco-ciprioti e i greco-ciprioti possono così spostarsi per fare spese o pranzare nel sud o nel nord di Cipro, a seconda del caso. Ma la linea che divide l’isola di Afrodite e che - sotto forma di case sventrate, assi inchiodate, filo spinato e posti di blocco militari – mi sono trovata più volte di fronte, a fermare la mia passeggiata in un soleggiato giorno di Natale, esiste ancora ed è una vergognosa cicatrice, il segno di un imperdonabile fallimento le cui responsabilità non sono certo unilaterali come vuol far credere certa politica di parte, dimenticando di ricordare burattinai fra i quali si contano i famigerati Nixon e Kissinger. Ma, si sa, la politica pilota e usa la memoria collettiva in funzione di quello che vuole far dimenticare.
A Nicosia cerco vie alternative che non cozzino contro la cosiddetta Linea Verde che, stabilita nel 1983 (10), separa la Repubblica greco-cipriota da quella turco-cipriota, ufficialmente esistente solo per la Turchia. Linea verde: quali nomi soavi i politici usano per mascherare situazioni inqualificabili! Osservo con attenzione la mappa del centro antico della città: le mura costruite dagli invasori veneziani formano una sorta di stella leggiadra, i cui vertici sono gli undici bastioni difensivi. Sovrapponendole una mappa odierna, vi trovo una punteggiata linea ondulata che, tagliando la stella, divide Nicosia in due parti: in quella superiore le strade portano i nomi di pascià o conquistatori turchi, come l’immancabile Atatürk o il conquistatore selgiuchide Alp Arslan, e le più famose chiese della città antica sono rimaste da questo lato e trasformate in moschee. Gli imprescindibili protagonisti della toponomastica nella parte inferiore della mappa sono – oltre ai mitici eroi della classicità come Alessandro, Eschilo, l’apostolo Barnaba e l’ultimo imperatore Costantino Paleologo – anche re Ottone, il bavarese che gli inglesi destinarono ad essere il primo re della nuova Grecia indipendente, e Trikoupis, il politico greco che, in auge negli ultimi decenni dell’Ottocento, sosteneva una riforma su linee occidentali. Quanti indizi su ciò che è stato sottolineato o rimosso può rivelare la semplice toponomastica di una città, strumento non secondario della propaganda di uno stato nazionale!
Mentre continuiamo il nostro percorso tra i campi di girasoli della torrida, assolata pianura della Tessaglia, un’indicazione stradale che indica “Kappadokiko” ci fa deviare su una strada diritta che sembra perdersi nella foschia dell’orizzonte campestre. L’inizio del paese è indicato da un grande cartello azzurro che porta scritto un enorme “Benvenuti” seguito da “Comune di Kappadokiko. Abitanti 651”. Il paese è formato da poche strade parallele che intersecano perpendicolarmente quella principale. Le case sono molto semplici e tutte uguali: dipinte di bianco, a un piano, con i tetti di tegole. Entro nel primo bar che trovo per porre agli avventori, tutti ovviamente di sesso maschile, quella che – dato il nome del paese – è proprio una domanda retorica. Rispondono come un sol uomo: “Sì, i nostri padri sono profughi della Cappadocia, venivano da Kaiseri, ma è il maestro Lazarus che sa tutto”. Seguendo le loro indicazioni procedo verso il bar principale, nella piazzetta alberata che è il centro di Kappadokiko, pensando al contrasto tra questo paesaggio piatto e agricolo, solitario nella pianura torrida, e la lontana città turca di Kaiseri bagnata di pioggia, come mi è apparsa nel mio recente viaggio autunnale, cupa con le sue mura, le moschee, i minareti di pietra nera e l’incombente profilo dell’antico vulcano all’orizzonte. Al bar mi dicono che Lazarus è appena andato via, ma un gentile omino si offre di andare a chiamarlo: inforcando la bicicletta si allontana tornando di lì a poco dopo per annunciare l’arrivo del maestro. No, nessun problema, ci rassicura: anche se è ora di pranzo, Lazarus è sempre felice di parlare della Cappadocia. Sediamo a un tavolino in ombra: a due passi da noi – dietro a una pianta di girasole delle dimensioni di un albero con un unico, enorme fiore – dritta nel suo nido in cima a un palo della luce una cicogna solitaria batte ritmicamente il becco. Per completare l’atmosfera surreale della scena, quasi ebbra per la calura chiedo all’omino: “Quando migrano le cicogne?” Risponde prontamente: “Il 15 agosto”, ma quando gli domando dove svernano, allarga le braccia e alza le spalle: “E’ un mistero!”
Nel frattempo è arrivato Lazarus che prende posto accanto a noi: magro e scattante, ha occhi vivacissimi e un sorriso luminoso. Porta un incongruo berretto a visiera e, sprizzando energia e vitalità da tutti i pori, comincia a parlare concedendomi pochissimo spazio per porgli delle domande. Arranco per seguire il suo velocissimo eloquio, poi – sopraffatta da Lazarus e dall’afa - rinuncio a prendere appunti e a comprendere ogni dettaglio, per riuscire a cogliere almeno il nocciolo del racconto. Nel 1924, quando i romei di Kaiseri e dei villaggi limitrofi giunsero in questi campi deserti a loro assegnati – nella provincia di Karditsa di cui Kappadokiko fa parte ne arrivarono più di centomila – furono dapprima sistemati in una tendopoli, e i greci dei circondario non accolsero certo a braccia aperte questa gente che parlava solo turco. Col tempo, si dissodarono i campi e furono costruite le case, ma non quelle che vediamo, racconta Lazarus: il primo nucleo di abitazioni venne infatti distrutto nel 1954 da un forte terremoto. Il nostro maestro, che dice di parlare bene il turco, è ritornato già tre volte in Cappadocia - organizza viaggi di discendenti di profughi nell’antica patria – e racconta che la sua famiglia viveva in pace con i turchi. Attorno a noi si è creato un cerchio di uomini che tentano di intervenire aggiungendo nuovi dettagli al racconto, ma Lazarus li zittisce autorevolmente dicendo che, per quanto straniera, io conosco benissimo la storia dello scambio. Della remota regione del Pindo chiamata Agrafa, le cui pendici di un pallido azzurro si intravedono all’orizzonte, Lazarus conferma quanto ho letto su questa zona, aggiungendo che da sempre su quelle alture hanno vissuto greci: “Per le sue spedizioni Alessandro arruolò uomini di queste parti, come del resto di tutta la Grecia, tranne gli spartani che non vollero seguirlo. I greci di Cappadocia erano dunque i discendenti dei soldati del macedone rimasti nel cuore dell’Anatolia. Ed ecco, siamo tornati indietro da dove eravami partiti!” esclama ridendo.
A riecheggiare l’orrore dei bambini romei soffocati perché le loro grida non rivelassero la presenza dei fuggiaschi dalla catastrofe del 1922, oggi si scoprono casi in cui i trafficanti di uomini costringono gli immigranti clandestini a dare il sonnifero per giorni ai loro bambini per farli tacere durante il viaggio. Sì, nonostante il preteso ‘progresso’ odierno, viviamo ancora – e senza nessuna giustificazione - in una civiltà di morte. Ognuno interpreta il proprio ruolo, ombra fra le ombre, nella rappresentazione del grande Karaghiozis che si ripete sempre con lo stesso canovaccio. Rabbrividisco, mentre porgo a un marinaio, che nemmeno lo guarda, il prezioso documento di identità che mi concede la libertà di andare ovunque nel mondo, come dovrebbe essere inalienabile diritto di ogni essere umano. Il ventre luminoso della nave inghiotte la mia auto e la notte inghiotte la nave.